domenica 21 agosto 2011

Bankitalia tempio del rigore? E' tutto un magna-magna, di Franco Bechis

Italia

Bankitalia tempio del rigore? E' tutto un magna-magna
Libero-news.it

Q

uando hanno letto il testo definitivo del decreto legge di agosto, in Banca d’Italia sono corsi in mensa. A seconda del rango potevano trovare un brut metodo classico della Banfi spumante o un prosecco di Valdobbiadene. Ce ne è sempre qualcuno in ghiaccio nelle foresterie di via Nazionale da quando il gruppo britannico Compass ha vinto il principesco appalto per le mense della banca centrale italiane. Ma i aprimi di agosto sono volati i tappi di quegli spumanti. Perché nel decreto per gran parte dei dirigenti e dei funzionari di via Nazionale c’era una buona notizia: quella del contributo di solidarietà sui redditi sopra i 90 e i 150 mila euro. Per tutti gli altri italiani è stata una mazzata. Per i guardiani del rigore dei conti pubblici nazionali, no.

A loro quel prelievo del 5% (sopra i 90 mila euro) e del 10% (sopra i 150 mila euro) era già scattato fra la fine del 2010 e l’inizio del 2011 sulla base di un decreto legge del 31 maggio 2010 che tagliava gli stipendi più alti dei dipendenti pubblici. Banca d’Italia ha la sua autonomia, e non è che il taglio sia scattato in automatico in via Nazionale. Ma di fronte al pressing dell’opinione pubblica e anche per essere coerente con le proprie prediche, il governatore Mario Draghi decise di estendere in quel territorio riservato la legge che nel resto d’Italia valeva per tutti i dipendenti pubblici. Con il nuovo decreto però le norme a cui Draghi e i il direttorio facevano riferimento, sono state abrogate. Per questo si è stappato lo spumante in banca: i tagli dei loro stipendi sono salvi. E anche quel che finora è avvenuto dovrà essere restituito. Certo, anche lì come accadrà a tutti gli altri italiani, si dovrà pagare il contributo di solidarietà. Ma anche nella peggiore delle ipotesi sarà più leggero: è deducibile (i tagli precedenti non lo erano) e quindi verrà dimezzato. Può essere che venga ulteriormente alleggerito durante il passaggio parlamentare, magari verrà calibrato secondo il quoziente familiare, può anche essere che salti tutto o in parte. La notizia quindi è certa: le buste paga in Bankitalia verranno rimpinguate, e non di poco.

Funziona tutto a rovescio lì fra le mura di via Nazionale. Si passa il giorno a tuonare contro il resto del Paese che vive al di sopra delle sue possibilità, e in Banca di Italia la possibilità crescono, si allargano a dismisura, sembrano più vicine a quelle di una corte reale che ai già generosi palazzi contigui della Repubblica. Il bando sui servizi di ristorazione che regola la pagnotta quotidiana sia nelle foresterie dei piani nobili che nelle più ordinarie mense sembra essere nato da Buckingham Palace e non da quel severo custode del rigore e del risparmio pubblico che la Banca d’Italia è, almeno nell’immaginario collettivo. Potrebbe trattarsi solo di uno sfizio, o di una particolare estrema attenzione alla buona alimentazione. Ma non è un caso isolato: il mondo capovolto sembra davvero essere la regola in via Nazionale.

Basta prendere i contratti del personale. Anche lì i sindacati come ovunque si lamentano ogni tre per due. Eppure l’ultimo ha regalato scatti trasversali che si sognano altri dipendenti del settore pubblico e di quello privato, facendo lievitare oltremodo la spesa per il personale. Nel 2009 la media degli stipendi pro capite in Banca di Italia era di 93.800 euro. L’anno scorso è salita a 95.900 euro. Con gli oneri accessori il dato medio delle retribuzioni è stato addirittura di 114.900 euro. Non ci sono molti altri posti dove si possano vantare buste paga medie così elevate. Le prediche del Governatore dunque sono assai efficaci fuori, un po’ meno dentro le mura.

Non molto diverso il doppio concetto che in Banca di Italia si ha del welfare. Quello italiano dovrebbe tirare la cinghia, ridurre la spesa sanitaria e quella pensionistica, alzando l’età del meritato riposo. All’interno della Banca il concetto è capovolto. Nel 2010 sono state mandate via 511 persone, e buona parte di queste (uno su tre) grazie agli scivoli (53 milioni di euro) pagati dalla banca verso il pensionamento anticipato di anzianità. In bilancio sono stati subito accantonati ulteriori 23 milioni e nel primo bimestre 2011 altri 119 se ne sono andati via dalla banca centrale, e la metà (56) si sono presi lo scivolo verso la pensione di anzianità. Quindi lì si fa quel che si vorrebbe (giustamente) vietare al resto di Italia.

Non male a proposito di welfare anche l’ultimo accordo sottoscritto dai dipendenti sulla assistenza sanitaria. La polizza assicurativa attuale costava 1.180 euro all’anno: 830 li metteva la banca centrale, e 350 ciascun dipendente. La nuova formula sottoscritta a luglio allarga il campo delle prestazioni, prevede una polizza base di 1.250 euro, di cui 1.180 saranno a carico della banca e solo 70 pagate dai dipendenti. E’ come se nella sistema sanitario nazionale invece di mettere i ticket ai cittadini si fossero allargate invece le prestazioni a carico dello Stato.

Nel mondo che vive alla rovescia, mentre l’Italia tira la cinghia e vive preoccupata dalla crisi, in Banca d’Italia i dipendenti hanno una sola preoccupazione: le promozioni a condirettore e gli avanzamenti di carriera per cui da settembre saranno sottoposti a prove di valutazione che ritengono troppo stringenti. Ma di promozioni dicono che cv’è gran bisogno: fin qui nel 2011 hanno avuto lo scatto di grado solo 95 dipendenti e da un po’ di tempo non si stava largheggiando. 69 promozioni nel 2010, 79 nel 2009, 92 nel 2008, 78 nel 2007. Certo, uno lavora tutto il giorno senza mai protestare e si immagina di potere fare carriera un po’ più velocemente. Se Draghi era di manica corta, magari il suo successore largheggerà un po’…

La manovra fronteggia le circostanze ma non cambia il paesaggio, di Giuliano Ferrara

Tasse & C., il grande orrore e i piccoli orrori sostenibili

E’ un imbroglio ideologico dire che il governo si è accanito sul ceto medio, mettendo le mani nelle tasche degli italiani contrariamente alle promesse fatte da Berlusconi. Le addizionali Irpef biennali e l’imposta sulle rendite finanziarie sono chiaramente piccoli orrori sostenibili. Era una promessa da marinaio escludere, appunto “tassativamente”, che il governo Berlusconi potesse mai prelevare quattrini dalle nostre tasche a fronte del debito pubblico al 120 per cento e in circostanze di crisi finanziaria generale particolarmente pericolose per l’Italia. Temeraria la promessa, enfatica e grossolanamente demagogica la delusione. Prima gli dicono che deve tassare, poi che ha tassato, ma che si mettano d’accordo. Ho comunque tirato un sospiro di sollievo quando ho visto che i bardi della patrimoniale, il cui manifesto è stato riscritto da Massimo Mucchetti nel Corriere alla vigilia della manovra bis, e ben castigato dal direttore di quel giornale dopo molti mesi di ambiguità, avevano perso la partita. Date le circostanze, probabilmente non si poteva agire altrimenti, e Padoa Schioppa o Bersani non avrebbero fatto niente di diverso da quello che hanno fatto Tremonti e soci.

Ma parliamo delle circostanze.
E’ lì che il berlusconismo si affloscia: fronteggia le circostanze invece di cambiare il paesaggio in profondità. Non perché Berlusconi sia inetto, è che la sua rivoluzione è incompiuta, nasce e progredisce di anomalia in anomalia, si muove tra buone intenzioni e cattivi processi giudiziari, sconta un deficit di politica professionale, è l’agitarsi di un blocco sociale con la pelle esposta e una cultura politica nuova ma insufficiente alla bisogna, in un sistema politico mai radicalmente cambiato, con un meccanismo decisionale che fa pena. Non c’è alcuna macelleria sociale nella manovra bis, espressione da depravati del primitivismo linguistico. Il welfare è ancora bello corposo e produttivo di un eccezionale livello di spesa pubblica e di dipendenza del cittadino dallo stato tutore. Sanità e pensioni sono sostanzialmente intonse, e Dio solo sa se l’età di uscita dal lavoro in Italia è scandalosamente lontana da parametri accettabili, e tutti sappiamo che la spesa sanitaria è una vergognosa macchina di sprechi e di devastazione della vera salute della gente, indotta a stazionare in corsia e in farmacia per paura di ammalarsi e di morire, mentre rinuncia a vivere (quand’è che ci decidiamo ad affamare i proprietari delle cliniche convenzionate che gonfiano i costi e gabellano lo stato e i cittadini e i pazienti?). Le Borse non hanno “bruciato” le immense ricchezze che si dice nell’informazione ansiosa e puttana, perché oscillano e si muovono in base anche a spinte speculative, nel breve termine ora bruciano e poi riaccendono, e comunque hanno recuperato il recuperabile nella settimana nera, bastavano il divieto di vendite allo scoperto e la controspinta rialzista dei ribassisti del giorno prima. L’economia cartacea nell’era del circuito mediatico-finanziario è molto imbrogliona. La finanza pubblica mastodontica in mano al governo, ai sindacati e alla Confindustria, è un modello italiano-europeo che fa sorridere i cinici mercati.

Quello che secondo me manca alla manovra, e questo non è un piccolo orrore sostenibile ma un insostenibile racconto dell’orrore, è una spinta pubblica strutturale alla creazione di ricchezza privata, di lavoro, di nuove possibilità di vita libera e produttiva. Siamo già in piena canzone da tragidiaturi, e per mesi dovremo fronteggiare cori scomposti che parlano di nulla, ma quello che ci manca è la visione, il senso di uno sforzo eccezionale per cambiare radicalmente registro. Prima che capo del governo, Berlusconi è leader degli imprenditori, nel senso che è l’unico uomo di danè che abbia fatto qualcosa, nel bene e nel male, per dare alla politica un contenuto nuovo, tecnicamente liberale. Dovrebbe ora frustare gli imprenditori, portare la zizzania in Confindustria, questa disutile burocrazia di dipendenti esterni dallo stato che si associano ai sindacati corporativi e si dissociano dai capitalisti manifatturieri come Marchionne, questa associazione per lo status quo che aspetta la crescita come manna dal cielo della finanza pubblica. Forza, chi mette i quattrini per far andare le municipalizzate? Chi organizza un movimento reale contro le corporazioni chiuse, gli evasori fiscali delle grandi cifre? Un premio a chi smette di parlare di innovazioni e liberalizzazioni, e innova e pratica la sfera di libertà che esiste. Un premio a chi la pianta di fare retorica sul Sud e investe e rischia in questo gigantesco serbatoio di ricchezza compresso dall’inerzia del capitalismo più ristretto, pacchiano e minore d’Europa.

http://www.ilfoglio.it/soloqui/10028

Caso Eluana, parla l'ateo Jannacci: allucinante fermare le cure, di Fabio Cutri

INTERVISTA AL CANTANTE-MEDICO

«La vita è importante anche quando è inerme e indifesa. Fosse mio figlio mi basterebbe un battito di ciglio»

Enzo Jannacci (Foto Rai)
Enzo Jannacci (Foto Rai)
MILANO - Ci vorrebbe una carezza del Nazareno» dice a un certo punto, e non è per niente una frase buttata lì, nella sua voce non c'è nemmeno un filo dell'ironia che da cinquant'anni rende inconfondibili le sue canzoni. Di fronte a Eluana e a chi è nelle sue condizioni — «persone vive solo in apparenza, ma vive » — Enzo Jannacci, «ateo laico molto imprudente», invoca il Cristo perché lui, come medico, si sente soltanto di alzare le braccia: «Non staccherei mai una spina e mai sospenderei l'alimentazione a un paziente: interrompere una vita è allucinante e bestiale».

È un discorso che vale anche nei confronti di chi ha trascorso diciassette anni in stato vegetativo?
«Sono tanti, lo so, ma valgono per noi, e non sappiamo nulla di come sono vissuti da una persona in coma vigile. Nessuno può entrare nel loro sonno misterioso e dirci cosa sia davvero, perciò non è giusto misurarlo con il tempo dei nostri orologi. Ecco perché vale sempre la pena di aspettare: quando e se sarà il momento, le cellule del paziente moriranno da sole. E poi non dobbiamo dimenticarci che la medicina è una cosa meravigliosa, in grado di fare progressi straordinari e inattesi».

Ma una volta che il cervello non reagisce più, l'attesa non rischia di essere inutile?
«Piano, piano... inutile? Cervello morto? Si usano queste espressioni troppo alla leggera. Se si trattasse di mio figlio basterebbe un solo battito delle ciglia a farmelo sentire vivo. Non sopporterei l'idea di non potergli più stare accanto».

Sono considerazioni di un genitore o di un medico?
«Io da medico ragiono esattamente così: la vita è sempre importante, non soltanto quando è attraente ed emozionante, ma anche se si presenta inerme e indifesa. L'esistenza è uno spazio che ci hanno regalato e che dobbiamo riempire di senso, sempre e comunque. Decidere di interromperla in un ospedale non è come fare una tracheotomia...».

Cosa si sentirebbe di dire a Beppino Englaro?
«Bisogna stare molto vicini a questo padre».

Non pensa che ci possano essere delle situazioni in cui una persona abbia il diritto di anticipare la propria morte?
«Sì, quando il paziente soffre terribilmente e la medicina non riesce più ad alleviare il dolore. Ma anche in quel caso non vorrei mai essere io a dover "staccare una spina": sono un vigliacco e confido nel fatto che ci siano medici più coraggiosi di me».

Come affronterebbe un paziente infermo che non ritiene più dignitosa la sua esistenza?
«Cercherei di convincerlo che la dignità non dipende dal proprio stato di salute ma sta nel coraggio con cui si affronta il destino. E poi direi alla sua famiglia e ai suoi amici che chi percepisce solitudine intorno a sé si arrende prima. Parlo per esperienza: conosco decide di ragazzi meravigliosi che riescono a vivere, ad amare e a farsi amare anche se devono invecchiare su un letto o una carrozzina».

Quarant'anni fa la pensava allo stesso modo?
«Alla fine degli anni Sessanta andai a specializzarmi in cardiochirurgia negli Stati Uniti. In reparto mi rimproveravano: "Lei si innamora dei pazienti, li va a trovare troppo di frequente e si interessa di cose che non c'entrano con la terapia: i dottori sono tecnici, per tutto il resto ci sono gli psicologi e i preti". Decisero di mandarmi a lavorare in rianimazione, "così può attaccarsi a loro finché vuole"... ecco, stare dove la vita è ridotta a un filo sottile è traumatico ma può insegnare parecchie cose a un dottore. C'è anche dell'altro, però».

Che cosa?
«In questi ultimi anni la figura del Cristo è diventata per me fondamentale: è il pensiero della sua fine in croce a rendermi impossibile anche solo l'idea di aiutare qualcuno a morire. Se il Nazareno tornasse ci prenderebbe a sberle tutti quanti. Ce lo meritiamo, eccome, però avremmo così tanto bisogno di una sua carezza».

domenica 14 agosto 2011

The Tea Party’s Modest Proposal, by Simon Johnson

WASHINGTON, DC – America’s Tea Party has a simple fiscal message: the United States is broke. This is factually incorrect – US government securities remain one of the safest investments in the world – but the claim serves the purpose of dramatizing the federal budget and creating a great deal of hysteria around America’s current debt levels. This then produces the fervent belief that government spending must be cut radically, and now.

There are legitimate fiscal issues that demand serious discussion, including how to control growth in health-care spending and how best to structure tax reform. But the Tea Party faction of the Republican Party cares more about small government than anything else: its members insist, above all, that federal tax revenue never be permitted to exceed 18% of GDP. Their historical antecedent is America’s anti-revenue Whiskey Rebellion in 1794, not the original anti-British, pro-representation Boston Tea Party in 1773.

Most importantly, their tactics have proven massively destructive of wealth in the US. Since the prolonged showdown over the budget began earlier this year, the stock market has lost about 20% of its value (roughly $10 trillion). In effect, the Tea Party is working hard to reduce publicly funded social benefits – including pensions and Medicare – even as its methods dramatically reduce the value of private wealth now and in the future.

Part of the Tea Party’s founding myth, of course, is that smaller government will lead to faster growth and greater prosperity for all. Never mind that the eye-popping growth projections in Representative Paul Ryan’s budget plan, for example, are utterly implausible; these projections matter politically, because, without them, the full sting of Ryan’s proposed Medicare cuts would be readily apparent.

Standard & Poor’s has received some justified criticism for the analysis behind its recent decision to downgrade US government debt; after all, there was little economic news that could explain the move’s timing. But S&P’s assessment of the political situation is on target: by creating a dysfunctional paralysis at the heart of government, the Tea Party has shown that it is willing to impose dramatic costs on the broader economy and to ensure significantly slower growth.

Confrontation and brinkmanship have become the new watchwords of American politics, even when the US government’s legal ability to pay its debts is on the line, owing to the Tea Party’s ideological rigidity. And the tone of political debate, not surprisingly, has become much nastier.

By signing a pledge not to raise taxes, Tea Party representatives have credibly committed themselves not to acquiesce in any middle-of-the-road compromise. If they break this pledge, presumably they will face defeat in the next round of Republican Party primaries. So, while a budget deal would technically be easy to achieve, it looks politically impossible in the near term. Indeed, while Congress and the Republican Party have become less popular during 2011, support for the Tea Party has remained remarkably constant, at around 30% of the population. Its tactics thus appear politically sustainable, at least through the 2012 elections.

Perhaps the most damaging outcome of these tactics is to take countercyclical fiscal policy off the table completely. Regardless of what happens to the global economy in the weeks and months ahead, it is inconceivable that any kind of meaningful fiscal stimulus would get through the House of Representatives.

It remains to be seen whether the US Federal Reserve will also feel constrained by the political mood on Capitol Hill. Clearly, influential Tea Party supporters would strongly resist any attempt now by Fed Chairman Ben Bernanke to find unorthodox ways to run a more expansionary monetary policy.

And, as for protecting the financial system against disaster, the current majority on the House Financial Services Committee is clear – they favor use of the bankruptcy system when megabanks get into serious trouble. If the eurozone crisis continues to spiral out of control, the US should expect to see Lehman or near-Lehman-type collapses among exposed financial institutions.

The irony of the Tea Party revolt, of course, is that it undermines the private sector more than it reins in “big government.” The S&P downgrade resulted in a “flight to quality,” meaning that investors bought US government debt – thus increasing its price and lowering the rate that the federal government pays to borrow.

It was the value of the stock market that fell sharply – which makes sense, given that counter-cyclical policy is now severely constrained. The government part of the credit system has been strengthened, relatively speaking, by developments over the past few months. It is the private sector – where investment and entrepreneurial activity are needed to generate growth and employment – that has taken a beating.

Unless and until America’s private sector recovers, investment and job creation will continue to stagnate. But today’s atmosphere of fear and aggressive budget tactics are combining to undermine private-sector confidence and spending power.

As Jonathan Swift put it in 1727, “Party is the madness of many, for the gain of the few.”

Simon Johnson, a former chief economist of the IMF, is co-founder of a leading economics blog, http://BaselineScenario.com, a professor at MIT Sloan, a senior fellow at the Peterson Institute for International Economics, and co-author, with James Kwak, of 13 Bankers.

http://www.project-syndicate.org/commentary/johnson23/English

Otto mesi buttati senza crescere, di Stefano Cingolani


Storia di un’agenda sviluppista e di risposte non pervenute

Perdere le illusioni? Terribile, ma peggio ancora è perdere le occasioni. Gli ultimi otto mesi sono una sequenza impressionante di chance gettate al vento. E’ vero, le esportazioni manifatturiere hanno ripreso a muoversi. Smaltite le scorte, molte imprese ricominciano a produrre e riducono, sia pur lentamente, la cassa integrazione. L’Italia, però, cammina più lenta di una lumaca, la produttività langue e con essa il reddito pro capite. Sono questi i macigni che portano in basso la fiducia nella possibilità di far fronte alla servitù del debito.

Quando il Foglio iniziò a parlare di “frustata”, nel gennaio scorso, in molti, troppi, si baloccavano ancora con l’idea che il paese galleggia comunque, guscio di noce nella tempesta. Un primo segnale di svolta era arrivato sul mercato del lavoro. L’ad di Fiat, Sergio Marchionne, aveva girato l’interruttore, a modo suo, da amerikano. Per più di un mese, a cominciare dalla prima settimana di dicembre, questo giornale ha ospitato decine di interviste, articoli, interventi polemici e contributi positivi. Non tutto convince nella “rivoluzione Marchionne”, ma la cosa peggiore era far finta di niente. Come invece è avvenuto. La responsabilità ricade anche sugli imprenditori, a cominciare dalla Confindustria. Marchionne propone ritmi, orari, efficienza germanica e salari tedeschi. Un bluff? Sempre meglio giocare fino in fondo la mano e dire vedo. Oggi il ministro dell’Economia parla di “libertà di licenziare”, addirittura. Non era meglio cominciare a discuterne allora? Lo stesso vale per la “scossa” in senso liberalizzatore proposta dal Foglio nel gennaio scorso. Un termine che aveva suscitato il sorriso di chi oggi vuole non solo altri tagli, ma nuove tasse.

A volte ritornano, come certi arnesi mai dismessi: l’euro-imposta di prodiana memoria o la patrimoniale rilanciata da Giuliano Amato che nel 1992 l’attuò d’imperio sui conti correnti e sulla casa. Inutile ricordare, citando studiosi seri e senza pregiudizi nei confronti della sinistra, che il prelievo forzoso non servì a salvare la lira né a rilanciare l’economia. La patrimoniale finanziaria portò appena 5.600 miliardi di lire nelle casse dello stato. I mercati si allarmarono ancora di più, la speculazione si accanì. La sequenza temporale è impressionante e non va mai dimenticata. A luglio c’è la patrimoniale. Ad agosto la lira raggiunge il punto minimo verso il marco. La Banca d’Italia resiste e per difenderla perde 48 miliardi di dollari falcidiando le proprie riserve. Il 16 settembre viene sospeso il cambio. Il giorno dopo Amato vara una manovra da 93 mila miliardi di lire. “Inutile, inefficace, iniqua”: così, secondo l’economista Alessandro Penati, è la patrimoniale che colpisce solo i contribuenti che già pagano, i ceti medi e non i ricchi.

Leggi La patrimoniale fa male

Leggi Il Cav. risponde al Pd: "Il partito dell'imposta patrimoniale non vincerà"

Una manovra sviluppista usando il fisco, invece, per il Foglio era ed è possibile. Anche su questo il giornale ha raccolto pareri e proposte, nella maggioranza e fuori (Antonio Martino -Francesco Giavazzi - Alberto Quadrio Curzio - Alberto Alesina - Vito Tanzi - Victor Uckmar -Giorgio Tonini ). L’idea di spostare progressivamente il prelievo dai redditi ai consumi, di finanziare una riduzione dell’Irpef attraverso l’Iva a parità di gettito, ma con una spinta espansiva che incrementa automaticamente le entrate, ha raccolto consensi, rimasti sulle pagine del quotidiano. Adesso si sente parlare di rincarare dell’un per cento l’Iva; un aggravio netto, senza incentivi dalla parte della produzione e del lavoro. Otto mesi fa, era possibile avviare tutt’altra operazione. Occasione perduta, anch’essa. Come le liberalizzazioni.

Dopo un paio d’anni di polemiche ideologiche contro i mercatisti, alla fine vince l’evidenza: solo aumentando la concorrenza e allargando il mercato si riesce ad abbassare i prezzi dei servizi e migliorare l’efficienza. Nella seconda metà degli anni 90 è stato avviato un ingente processo di privatizzazione dell’impresa pubblica, guidato dalla necessità di far cassa. Quindi senza un vero progetto industriale e soprattutto senza prima aver liberalizzato i mercati. Risultato: la cassa è stata prosciugata dal ritorno delle spese assistenziali, mentre ai monopoli pubblici si sono sostituiti monopoli privati. Non sempre e non ovunque, ma nella sostanza è così, lo lamenta ogni anno l’autorità per la concorrenza. Adesso si vuol ripetere anche questo errore? Vendere altre quote dell’Eni e dell’Enel, o le municipalizzate, è importante se si accompagna a quella apertura che finora è mancata.

Qualche segnale il governo l’ha mandato
, ad esempio l’apertura dei negozi la domenica. Ma insieme ad altri passi indietro, come sulle professioni, sotto la spinta di lobby e gruppi di interesse potenti. Una pressione che già si sente sulle pensioni. Anche in questo caso, sarebbe stato meglio discuterne in modo sereno otto mesi fa. E’ vero, il governo ha avviato un percorso virtuoso che dal 2014 lega l’età pensionistica alla dinamica demografica. Occorre, però, anche una soluzione di breve periodo, anticipando il percorso, un segnale importante e un risparmio considerevole dal lato delle spese. Ora se ne riparla, sotto i colpi della speculazione finanziaria, con la Lega contraria e i sindacati divisi. In realtà, si poteva benissimo preparare un ampio consenso su una proposta non punitiva. E’ vero che sono stati fatti miglioramenti considerevoli: per la prima volta la spesa corrente si ridurrà quest’anno in rapporto al prodotto lordo. Ma la cadenza del passo è ancora lenta. C’è bisogno di accelerare e mettere in sicurezza il bilancio. Una considerazione di buon senso. Eppure un’altra occasione perduta. Fino a quando?

http://www.ilfoglio.it/soloqui/10015

giovedì 11 agosto 2011

Una riforma drastica per la salute dell'economia, di Martin Feldstein

Ormai soltanto Grecia ed Egitto, fra i Paesi più importanti, hanno un deficit superiore in percentuale a quello degli Stati Uniti d'America. Certo, quel passivo del 9,1 per cento del Prodotto interno lordo nei conti pubblici statunitensi è dovuto in parte agli effetti automatici della recessione. Ma, secondo le proiezioni ufficiali dell'Ufficio bilancio del Congresso, anche quando l'economia sarà tornata a una situazione di piena occupazione, il deficit rimarrà alto, talmente alto che il debito pubblico continuerà a crescere, in rapporto al Pil, per tutto questo decennio e oltre.

Per capire come risanare le finanze federali degli Stati Uniti bisogna prima capire perché il deficit, secondo le previsioni, sembra destinato a rimanere elevato. Prima di guardare ai disavanzi futuri, prendiamo in esame quello che è successo nei primi due anni dell'amministrazione di Barak Obama, che ha visto il deficit crescere dal 3,2 per cento del Pil del 2008 all'8,9 per cento del 2010 (facendo a sua volta schizzare il rapporto tra il debito e il prodotto interno lordo dal 40 al 62 per cento).

Questo 5,7 per cento in più di deficit è dovuto a un calo delle entrate del 2,6 per cento (dal 17,5 al 14,9 per cento del Pil) e a un aumento delle uscite del 3,1 per cento (dal 20,7 al 23,8 per cento del Pil). Secondo l'Ufficio bilancio, la crisi economica ha pesato per meno della metà in questo 5,7 per cento, un 2,5 per cento tra il 2008 e il 2010 determinato dagli stabilizzatori automatici.

L'analisi dell'Ufficio bilancio definisce «stabilizzatori automatici» le variazioni del deficit di bilancio indotte dalle condizioni congiunturali, in base alla teoria secondo cui le minori entrate e le maggiori spese (principalmente dovute a sussidi di disoccupazione e altri trasferimenti) determinate da una recessione economica contribuiscono a rilanciare la domanda complessiva e quindi aiutano a stabilizzare l'economia.

In altre parole, anche non tenendo conto degli stabilizzatori automatici (cioè se l'economia tra il 2008 e il 2010 fosse stata in una situazione di piena occupazione), il deficit di bilancio degli Stati Uniti sarebbe comunque cresciuto del 3,2 per cento del Prodotto interno lordo. I minori introiti e i maggiori esborsi pesano ciascuno per la metà circa di questo incremento "in piena occupazione" del disavanzo.

Guardando avanti, l'Ufficio bilancio pronostica che l'applicazione della legge di bilancio proposta dall'amministrazione Obama a febbraio farebbe crescere il debito pubblico tra il 2010 e il 2020 di altri 3800 miliardi di dollari, portandolo al 90 per cento del Pil. Questo incremento netto del debito di 3800 miliardi riflette un incremento del deficit di circa 5mila miliardi di dollari, dovuto a maggiori spese e minori entrate da parte dei contribuenti a medio e basso reddito, compensato in parte da aumenti delle tasse per 1300 miliardi di dollari prevalentemente a carico delle fasce di reddito alte.

L'enorme incremento del deficit e del debito prefigurato da queste proiezioni non dà conto fino in fondo dei danni che provocherebbe la finanziaria di Obama se venisse approvata. La proposta di legge si basa sul presupposto che le spese "discrezionali" (cioè quelle che necessitano dell'approvazione del Congresso, a differenza delle cosiddette spese "obbligatorie", come le prestazioni pensionistiche della Social Security - la previdenza pubblica - che continueranno ad aumentare a meno che il Congresso non intervenga a modificarle), difesa esclusa, cresceranno complessivamente solo del 5 per cento fra il 2010 e il 2020, cosa che implica un calo in termini reali e nessuno spazio per nuovi programmi.

Il livello annuo delle spese militari dovrebbe calare secondo le previsioni del Governo di circa 50 miliardi di dollari per ogni anno a partire dal 2012: una visione molto ottimistica delle necessità militari degli Stati Uniti nel decennio che abbiamo davanti.

Per ridurre il disavanzo di bilancio in modo da prevenire un ulteriore aumento del debito pubblico sarà necessario ridurre le spese e aumentare le entrate. Questo incremento delle entrate può essere ottenuto senza alzare le aliquote, e cioè limitando l'ammontare delle agevolazioni fiscali di cui individui e imprese possono godere tramite le varie "spese deducibili" che costituiscono una fetta importante del diritto tributario statunitense. Ma questo è un argomento che andrebbe approfondito in un altro editoriale.

Sul fronte delle uscite, invece, la prospettiva di un raddoppio del debito pubblico nel corso del prossimo decennio è solo l'inizio dei problemi di bilancio che gli Stati Uniti in questo momento si trovano ad affrontare. Negli scenari dei conti pubblici dei prossimi decenni giocano un ruolo chiave i costi crescenti delle prestazioni pensionistiche e sanitarie, che secondo le previsioni porteranno il rapporto tra il debito pubblico e il prodotto interno lordo dal 90 per cento del 2020 al 190 per cento del 2035. Una riforma drastica di questi programmi rappresenta la sfida primaria per le finanze pubbliche degli Stati Uniti d'America, e dunque per la salute a lungo termine dell'economia statunitense.

http://www.ilsole24ore.com/art/economia/2011-08-06/una-riforma-drastica-per-salute-economia-110257.shtml?uuid=AapQxJuD