domenica 11 dicembre 2011

Inflammare necesse est, di Alessandro Giuli

La perfetta bellezza del Numero d’oro nella Divina Proporzione. Da Pitagora a Musmeci-ignis

Métron àriston” insegna Pitagora: in ogni cosa la misura è aristocratica, in quanto avvicina all’archetipo divino. Ogni eccesso è corruzione dell’anima, allontana dalla conoscenza che è visione di forme perfette. Quando l’uomo primevo della civiltà mediterranea non ebbe più la facoltà del contatto immediato con il sacro, prese a figurarsi la Natura degli Dei sotto sembianze antropomorfe: con la potenza della parola, con il ritmo del carme, evocò le forze abissali del Cosmo per racchiuderle in un cerchio magico; le trasfuse nel legno scolpito (accumulatore solare), nel marmo (accumulatore di luce), nel bronzo (accumulatore di fuoco), affinché l’armonia del Gran Tutto trovasse luoghi prescelti ove manifestarsi. Nacque così il Bello: un coro di linee luminescenti e serene composte in euritmia, equilibrio delle parti, calma nobiltà statuaria. Poiché “la virtù, la salute, ogni bene e Dio sono altrettante armonie; perciò ogni cosa consiste di armonie” (Diogene Laertio). Gli Elleni hanno costruito su questa base una Scienza del Bello, un culto ideale fondato sull’equivalenza della bellezza e della virtù (kalokagathia) secondo il quale il dato estetico, l’opera d’arte così come la grazia nelle proporzioni umane, non è altro che il riflesso di un fatto psichico. Secondo Platone, come la mancanza di grazia, di numero e di armonia è il contrassegno di un cattivo spirito e d’un cattivo cuore, così le qualità opposte sono l’immagine e l’espressione d’un cuore ben nato. Il filosofo ateniese sapeva che nessuno poté (e può) accedere al primo sodalizio pitagorico senza aver prima superato un rigido esame fisiognomico, giacché le forme parlano anche nella loro muta espressione.
Ma i Greci, ingenui e sensuali, avrebbero finito per trasformare l’intuito originale del Bello in astratta teoria, in postulato filosofico e in commercio carnale; troppo presto dimentichi della dottrina secreta che si cela dietro il canone della bellezza: “Il Dio tutto geometrizza” (Platone). La stirpe etrusco-romana ha invece eternato questo insegnamento sotto il segno della virtù e della disciplina: dalla quadratura del cerchio operata con l’aratro di Romolo alla marcia delle quadrate legioni ordinate secondo la decade e i suoi multipli, in Roma tutto è cratofania, forza formatrice e di dominio sul caos. Sicché davvero i suoi templi erano case divine del Nume, e dei suoi duci si poté affermare che parevano statue di bronzo appena discese dai loro piedistalli. Pathos della distanza, nulla oltre misura e concordia di forme. Virtù apollinee assegnate a Roma dalla legge di “analogia fra cielo e terra, fra intellegibile e sensibile, fra corporeo e incorporeo, fra visibile e invisibile”: “Quelle corrispondenze specifiche fra macrocosmo e microcosmo” cui “le tradizioni magiche hanno associato il simbolo del Pentagramma” (Julius Evola); luogo fisico ove l’uomo integrale partecipa delle energie cosmiche e si fa costruttore di ponti metafisici (pontifex), secondo l’insegnamento pratico che il pitagorico Domenico Angherà riassunse in una frase sola: “Il Geometra dimostra, non declama”.
Con il declino del mondo antico, nel dilagare di ateismo e barbarie, la disarmonia prese il sopravvento e il canone del Bello si occultò. Il nitore impersonale dell’optimus vir cedette all’introspezione morbosa di un io scisso; la pax deorum smarrì il suo statuto di legge sacra e santa che collega umano e divino; si affermarono culti di salvezza esasperati, evasionistici, rabbiosamente ossessivi; i templi rovinarono, al canone di Policleto e ai capolavori di Fidia, Prassitele e Alcamene succedettero immagini di una fissità malata, buia e senza prospettiva. Il mondo s’imbruttì fino a collassare nel Medioevo. Si dovette aspettare l’età dell’Umanesimo e la Rinascenza per assistere al ritorno palese della Dea Armonia fra i mortali. Luca Pacioli, Leonardo da Vinci, Leon Battista Alberti e Sandro Botticelli rappresentarono soltanto l’epifenomeno vorticoso di una corrente misterica le cui acque sorgive sgorgano dall’antro delle Ninfe di cui ci parlano Omero e Porfirio: lì dove si generano anime d’oro e alti destini. Ma anche questa stagione rorida, con la fioritura di scienze e arti che ne derivò, ebbe in sorte una vita limitata. Sopraggiunsero i roghi controriformisti, i fondali oscuri del Caravaggio e le nebbie dei fiamminghi contro i quali poco o nulla poté la sensibilità faunesca di un Nicolas Poussin.
Il dio Vertumno avrebbe dovuto volgere ancora la sua ruota per donare alla civiltà occidentale la pallida eco del neoclassicismo, fino a che il mito di Roma Eterna non si prese carico di guidare le rivoluzioni europee e sopra ogni cosa di restaurare l’Unità dell’Italia secondo gli immutabili confini augustei. Fu dunque sul finire dell’Ottocento e nella prima metà del secolo successivo che le “daimoniche sorti” (Pitagora) consentirono il riaffiorare della antichissima sapienza italica sopravvissuta ai cataclismi della storia. In un clima di eroismo trionfale, germogliarono dall’immanifestato figure insigni di condottieri, artisti, archeologi e sapienti il cui volto “gianiforme” proiettava luce sulla futura, rinascente grandezza italiana nel mentre lo sguardo retrostante ammirava come sua stella polare il modello di virtù prisca; quella virtù che faceva esclamare a Cicerone essere più vicino agli Dei ciò che rimonta ai tempi più antichi.
Fra costoro è Ruggero Musmeci Ferrari Bravo, uomo d’arme e artista multiforme, cantore di Roma e propugnatore del suo primato; ma sopra tutto continuatore degli studi pitagorici applicati al mistero della suprema Bellezza: la Divina Proporzione. Come lui, accanto a lui, agirono studiosi quali Evelino Leonardi e il daco-romano Matila C. Ghyka, accomunati dalla volontà di disvelare, nel nome di Roma, la legge superiore che informa l’unità della natura. Fu anche grazie a loro che trovò risposta il monito di un altro scienziato pitagorico dell’epoca, Enrico Caporali: “L’opera di Mazzini, di Cavour, di Garibaldi non potrà dirsi compiuta se non allorché le classi dirigenti sapranno pensare italicamente”.
Pensare italicamente, per Musmeci Ferrari Bravo, significò entrare in contatto con la forza sottile del Genio Italico issandosi sulla verticale del magistero antico secondo il quale la comunicazione con il mistero ineffabile di Roma può avvenire per via d’intuizione folgorante: “Poca favilla gran fiamma seconda”, suggeriva Dante. Fu così che Musmeci, già medico e giurista versato nelle arti figurative, guidato da ambienti esoterici della Capitale e accompagnato dalla Fortuna romana che sorregge il Fato, divenne ignis: poeta e tragediografo delle origini di Roma (il suo Rumon risale al 1914 ev), combattente nella Grande Guerra, cultore del Bello e scopritore del canone invisibile che ne attrae la manifestazione visibile. In due parole: Divina Proporzione, un mistero esemplificabile attraverso due frasi di origine neoplatonica. “L’occhio non vedrebbe mai il Sole se non fosse simile al Sole, né l’anima vedrebbe il Bello se non fosse bella”, è l’insegnamento del filosofo Plotino. Mentre il teurgo Proclo ci ha lasciato un frammento analogo risalente ai così detti Oracoli Caldaici: “Il noûs paterno inseminò simboli attraverso il cosmo, lui che intuisce gli intuibili, quelli che sono detti bellezze ineffabili”.
L’intuizione è come fiamma che si specchia nel Sole, da essa deriva l’antica scienza cultuale del Bello tale da ricondurre all’archetipo primigenio dell’Uomo-assoluto iscritto nel Pentalfa. Mentre “il simbolo inseminato nel mondo è l’Intuibile che si lascia cogliere come bellezza indicibile, cioè come idea, immagine, che dimora alla radice del cosmo e traspare in alcune sue forme, senza coincidere con esse. I simboli sono intuizione del Padre, e partecipano della natura connettiva di Eros, che è una emanazione del noûs paterno” (Angelo Tonelli). Se dunque la Natura non è altro che un insieme di accordi numerici intonati secondo una metrica divina, dalla decrittazione di questi accordi ignis intuì che l’armonia delle forme visibili deve obbedire a una legge radicata nell’immanifestato: ciò che abita il regno della percezione sensibile è la proiezione di una pura essenza radiante, immutabile ed eterna. Esiste infatti un modulo secreto al quale hanno mirato, ma senza attingere alla radice del “formidabile problema”, sia il canone egiziano sia quello greco-romano, sia i magi rinascimentali. Questo modello, che sancisce la “totalità ed universalità delle legge di costruzione del corpo umano e dei vertebrati”, venne scoperto sperimentalmente da ignis e designato con la formula alfa-numerologica del “Ap-ro-fo”.
Dalla scoperta dell’aureo modulo, ignis fece discendere un’architettura iero-fisio-logica composta di LV proposizioni, fra assiomi e corollari, le così dette ignisleges, la prima delle quali recita: “L’ap – oppure ro – oppure fo – è il modulo del canone di misura per il corpo umano prescelto dal Divino Architetto nella costruzione del corpo nostro – su cui si giunge con lo stesso principio – salendo l’intera scala zoologica”. La seconda precisa: “Tutta l’umanità – nelle infinite ed imprecisabili sue variazioni individuali – è costituita secondo l’archetipo o prototipo ideale del Divino Architetto”. La quarta sviluppa: “Ogni individuo umano tende – nei due sessi per una forza divina-ignota-misteriosa – a raggiungere l’Archetipo (unico) pur restandone più, o meno, lontano sempre”. Ne segue che “Natura e arte, con reciproco controllo, tendono all’Archetipo mai totalmente e coscientemente raggiunto, fino ad oggi, ed oggi svelato nel mio ap=ro=fo” (VII). Sicché “all’umanità l’arte è necessaria, per poter vivere, quanto l’aria da respirare”.
In questa estrema istanza umana di vita, che al tempo stesso è natura ed è arte, si condensa il progetto di un’esistenza intera protesa verso l’unità primigenia dell’uomo antico. “Filosoficamente, e scientificamente”, scriverà Musmeci nei suoi “Appunti sulla Divina Proporzione”, “l’Uomo è Uno”: quel Re-bis (res bina) il quale, pel tramite di Eros (il metaxù del Simposio platonico, strumento della legge d’attrazione universale custodita da Venere), ha finalmente ricongiunto in sé medesimo la doppia natura maschile e femminile: “Teoricamente, a priori, non si dovrebbe negare la possibilità di un Ermafrodito perfetto” (XVI), poiché “in ogni accoppiamento riproduttivo vi è una oscura, ma sicura aspirazione ad un prodotto che, sommando le qualità individuali dei due elementi della fecondazione, riesca somaticamente ed esteticamente superiore ai genitori” (XXX). Il risultato di tale pre-tensione del “nostro innato senso della bellezza” essendo la scoperta di “leggi cui non si può giungere affatto con il raziocinio, leggi che solo si sentono” (XLII), ignis si mise dunque all’opera nel suo studio romano di via del Vantaggio.
Dall’autofecondazione, entro lo stesso ingegno, di una volontà possente penetrata nella corrente astrale dell’immaginazione creatrice, nacquero le due opere immense di ignis: il busto di “Romolo” e quello della “Venere delle Perle”. Demiurgo dei suoi tempi (Inflammare è il suo motto e la fiamma il suo sigillo), l’8 giugno del 1928 ev, davanti a colleghi, artisti e scienziati, Musmeci offrì una prova empirica della sua “opera che onora il genio italiano”, mostrando agli sguardi ammirati le sue sculture: il “Romi Caput” e il “Veneris Caput”, modellati sulla base dell’autentico canone aureo. Nei busti – scolpiti con “identici punti di misura” – è racchiuso l’Arcano: Romolo è l’eroe solare disceso dal fuoco di Marte; Venere è la Genitrice delle anime eroiche destinate a riunirsi con la sua perfetta bellezza; Roma è la sede fatale del loro incontro. La Maestà del Re d’Italia non mancò di plaudire di persona alla novella ierofania che realizzava, in piena età oscura, il secreto accennato da Platone nella Repubblica: “Per la prole divina il periodo fecondo è racchiuso da un numero perfetto, per quella umana…”.
Colto dal vortice della stessa corrente psichica, nonché amico e corrispondente di Musmeci, nello stesso periodo si attivò il romeno Matila C. Ghyka: “La sezione aurea l’ho ritrovata in biologia, spesso sotto forma di schema numerico, quasi fosse un sintetico simbolo delle forme viventi, in qualche modo opposto agli schemi d’equilibrio cristallini delle forme non viventi, esprimente la pulsazione della crescita; tale ‘numero d’oro’ riassume aritmeticamente e algebricamente le proprietà della ‘stella a cinque punte’”.
Pentalfa o Pentagramma pitagorico, Stella fosforeggiante del mattino, sigillo di Venere che protegge l’Italia Turrita; inizio e compimento dell’indagine di Ghyka fu non a caso “il segno di riconoscimento geometrico pitagorico”, di quel sodalizio che “fu una sorta di ‘Fascismo esoterico’ formato da tre categorie di iniziati: i filosofi contemplativi (i matematici), i nomotèti (quei filosofi che dirigevano l’attività sociale e politica della Confraternita dando istruzioni alla terza categoria), e infine i ‘politici’ (non ancora arrivati alla perfetta purezza), funzionari esecutivi e di collegamento”. Quasi avesse sotto gli occhi le sculture di ignis, Ghyka affermò: “Constatiamo immediatamente che in Italia la tradizione pitagorica non si è mai interrotta”.
A conclusioni pressoché identiche pervenne Evelino Leonardi: nota è l’usanza rituale del saluto pitagorico al Sole mattutino, chiaro deve allora risultare che “i ritmi solari plasmano, secondo leggi numeriche e geometriche, tanto i minerali che i vegetali, tanto gli animali che gli uomini. […] Le stesse formazioni geologiche e le forme risultanti sono come lo scheletro del paesaggio e rappresentano, per così dire, lo stampo del conflitto delle forze naturali di cui denunciano l’intensità, fissandone il ricordo”. Sonorità luminose in reciproca, armonica tensione di opposte energie che si cristallizzano in materia: ecco la trama corrusca del cosmo. “E questa – aggiunge Leonardi – è la natura della proporzione che gli autori antichi, da Platone a Pitagora, da Leonardo a Luca Pacioli, chiamarono Numero puro, Armonia delle sfere, Sezione dorata, Divina proporzione. Questa legge, riferita al corpo umano, segna l’ombelico come il punto che lo divide in due parti di diversa lunghezza. E quindi la sezione dorata, la divina proporzione (dall’ombelico ai piedi) divisa per la proporzione minore (dalla testa all’ombelico) deve essere uguale alla lunghezza totale del corpo divisa per la proporzione più grande”.
Anche per Leonardi il mistero aureo si risolve nel numero V: “Geometricamente questa proporzione si traduce nel pentagono. ‘Et senza il suo suffragio, non se possa mai formare il pentagono’, dice Luca Pacioli. Infatti, nella mistica numerica di Pitagora il numero Cinque formava la Pentade o Numero di Afrodite composto di un numero matrice o femminile che è il due e di un numero maschio che è il tre. Il numero Cinque è stato dunque sempre ritenuto come una specie di chiave di volta per le conoscenze profonde dei misteri della vita”. Al punto che “come nel nostro pianeta i minerali si condensarono in cinque grandi gruppi che formarono i cinque continenti, così, per l’armonia dell’Universo, anche i cinque elementi semplici si strinsero nel mondo microscopico per formare la cellula del protoplasma vivente: Carbonio, Hidrogeno, Azoto, Ossigeno, Solfo. E’ una combinazione che le rispettive iniziali di questi cinque elementi formino la parola CHAOS?”.
Non è una combinazione, come non lo è la circostanza che il superno Dio romano degli inizi, Giano Padre, si presentasse così a Ovidio nei suoi Fasti: “Me Chaos gli antichi chiamavano”. Né è casuale che Giano fosse titolare, insieme con Saturno, dell’evo primigenio nel quale “numero umano” e “numero divino” coincidevano: l’età dell’Oro. Ma, come insegnano gli ermetisti, jerofanti di Ermete Pelasgo: non si può fare dell’Oro se non se ne ha già; e non si può avere dell’Oro se non arde una fiamma. Si deve dunque INFLAMMARE.
INFLAMMARE è il titolo della mostra sulla vita e le opere di Ruggero Musmeci Ferrari Bravo (Palermo 1868-Roma 1937), ripercorse attraverso i documenti e le sculture presenti nell’archivio dell’Istituto Nazionale di Studi Romani.
L’esposizione si terrà nella Sala della Presidenza della sede romana dell’Istituto Nazionale di Studi Romani, sul Colle Aventino, in piazza dei Cavalieri di Malta 2, da lunedì 12 a venerdì 16 dicembre 2011, dalle ore 9 alle 14. L’ingresso è libero, info: studiromani@studiromani.it. Comitato organizzatore: Fabrizio Giorgio, Alessandro Giuli, Michele Bianco, Vittorio Sorci, Alessandro Villanti, Sandro Bellucci.
 


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