giovedì 28 marzo 2013

Re per diritto divino, di Roberto de Mattei


La rinunzia di Benedetto e l’elezione di Francesco. Domanda: chi è il Papa? Il carisma giuridico di un vescovo che ha un primato sui confratelli. Per Cristo

La domanda “chi è il Papa?” sorge spontanea ogni qual volta è eletto un nuovo Pontefice, soprattutto quando il suo nome o la sua storia personale sono ignoti al grande pubblico. Tale non fu il caso del cardinale Joseph Ratzinger, romano di adozione, dopo tanti anni passati come prefetto della congregazione per la Fede, ma tale fu il caso di Karol Wojtyla, venuto da Cracovia, e lo è oggi di Jorge Mario Bergoglio, giunto da una diocesi ancora più lontana, ai confini del mondo, come egli stesso ha detto il giorno della sua elezione.
E’ comprensibile che nei primi giorni e settimane successivi all’elezione si cerchi di scandagliare il passato prossimo o remoto del nuovo Pontefice, di conoscerne le idee, le tendenze, le abitudini, per dedurre dalle parole e dai gesti del passato il programma del nuovo pontificato. Il volume El jesuita. Conversaciones con el cardenal Jorge Bergoglio (Vergara, Buenos Aires 2010, a cura di Sergio Rubin e Francesca Ambrogetti), delinea già il volto di un papabile, e merita di essere conosciuto. Meno nota è la reazione indignata che a quel volume ha dedicato uno studioso argentino di orientamento tradizionale, Antonio Caponnetto (La Iglesia traicionada, Editorial Santiago Apostol, Buenos Aires 2010). Né si potrà capire chi è il nuovo Pontefice, senza conoscere il giudizio che di lui dà il padre Juan Carlos Scannone, un gesuita, discepolo di Karl Rahner, che lo ha avuto come allievo e che ascrive l’arcivescovo di Buenos Aires alla “scuola argentina” della teologia della liberazione (la Croix, 18 marzo 2013).
L’“opzione preferenziale dei poveri” del card. Bergoglio si radica in particolare nell’insegnamento di Lucio Gera e Rafael Tello, gli esponenti di una “teologia del popolo”, caratterizzata dalla sostituzione della prassi della povertà alla ideologia della rivoluzione armata. Carlos Pagni, analizzando, sulla Nación del 21 marzo il “Método Bergoglio para gobernar”, spiega la ragione teologica per cui la “periferia” occupa il posto centrale nel paesaggio ideologico dell’arcivescovo Bergoglio. I poveri per lui non sono una realtà sociologica da aiutare, ma un soggetto teologico da cui apprendere: “Questa attitudine pedagogica ha una radice religiosa: la relazione del popolo con Dio sarebbe più genuina perché manca di contaminazioni materiali”. Anche Maurizio Crippa sul Foglio del 23 marzo (La povertà è un segno teologico, non sociologia) sottolinea questo aspetto, ricordandone le remote ascendenze: “La posta in palio è sempre trasformare la chiesa nel popolo dei poveri in cammino, meglio se autoconvocato: dai Poveri di Lione, detti poi valdesi, a tutte le correnti ortodosse o ereticali che attraversano il Medioevo, gli Umiliati e Fra’ Dolcino, con deviazioni che arrivano fino a Tolstoj, e su su in un percorso di spoliazione e rigenerazione che ritorna identico dalle ‘Cinque piaghe della santa chiesa’ di Antonio Rosmini – la quinta è proprio ‘La servitù dei beni ecclesiastici’ – alle teologie della chiesa povera conciliari”.
Si tratta di temi che sarebbe utile approfondire. Ma in fondo non è questo il punto. La vita di un uomo, anche di un Papa, non si misura con i gesti del passato, cambia ogni giorno e ogni giorno può essere azzerata da svolte, maturazioni, direzioni di cammino nuove e impreviste.
Ogni svolta di pontificato, piuttosto che sollecitare quegli interrogativi a cui solo il futuro può rispondere, dovrebbe offrire l’occasione per meditare su ciò che il nuovo eletto rappresenta; di riflettere sul papato come istituzione, più che sul Papa come personaggio. E questo soprattutto in un momento in cui, tra l’11 febbraio e il 13 marzo del 2013, sembra essere stata profondamente ferita la stessa costituzione del papato.
Il primo colpo di questa flagellazione è stato la rinuncia al pontificato da parte di Benedetto XVI, un evento canonicamente legittimo, ma dall’impatto storico devastante. “Un Papa che si dimette – ha osservato Massimo Franco – è già un avvenimento epocale, nella storia moderna. Ma un Pontefice che lo fa nel pieno delle proprie facoltà mentali, indicando come motivazione semplicemente la fragilità che deriva dall’età, spezza una tradizione plurisecolare” (“La crisi dell’impero vaticano”, Mondadori, Milano 2013, p. 9).
Un secondo colpo all’istituzione è stata la scelta, da parte di Benedetto XVI, di autodefinirsi “Papa emerito”, conservando il nome e la veste pontificia e continuando a vivere in Vaticano. Canonisti autorevoli, come Carlo Fantappiè, hanno rilevato la novità del gesto, sottolineando come “la rinuncia di Benedetto XVI ha posto gravi problemi sulla costituzione della chiesa, sulla natura del primato del Papa nonché sull’ambito ed estensione dei suoi poteri dopo la cessazione dell’ufficio” (Papato, sede vacante e “Papa emerito”. Equivoci da evitare, in chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1350457).
La coesistenza di un Papa che si presenta come vescovo di Roma e di un vescovo (perché tale è oggi Joseph Ratzinger) che si autodefinisce Papa offre l’immagine di una chiesa “bicefala” ed evoca inevitabilmente le epoche dei grandi scismi. Non si comprende, a questo proposito, il risalto mediatico che le autorità vaticane hanno voluto dare all’incontro dei due papi, il 23 marzo a Castel Gandolfo. L’immagine che ha fatto il giro del mondo e che lo stesso Osservatore Romano ha pubblicato in prima pagina il 24 marzo è quella di due uomini che il linguaggio dei simboli pone su un piano di assoluta parità, impedendo di discernere in maniera immediata, chi di essi è l’autentico Papa. L’evento contrasta inoltre con l’assicurazione, data dalla sala stampa della Santa Sede, secondo cui, dopo il 28 febbraio, Benedetto XVI avrebbe rinunciato al palcoscenico mediatico, ritirandosi nel silenzio e nella preghiera. Non sarebbe stato più saggio se l’incontro si fosse svolto lontano dai riflettori? Oppure esiste, dietro la scelta mediatica, una lucida strategia, e quale?
Uno studioso di Storia del cristianesimo, Roberto Rusconi, ha descritto da parte sua lo scenario dell’enciclica incompiuta di Joseph Ratzinger sulla fede, dopo quelle già promulgate sulla carità e la speranza. “L’enciclica non terminata, – osserva Rusconi – potrebbe essere in seguito pubblicata alla stregua di qualsiasi altro testo di Joseph Ratzinger, il quale durante il pontificato ha ripetutamente sostenuto che i propri ultimi volumi in nessun modo dovessero essere ritenuti espressione diretta del suo magistero pontificio” (Roberto Rusconi, Il gran rifiuto. Perché un papa si dimette, Morcelliana, Brescia 2012, pp. 143-144). Se ciò dovesse accadere, il risultato sarebbe quello di minare alla base l’autorevolezza non solo dei precedenti documenti promulgati da Benedetto XVI, ma anche quelli emanati dal successivo Pontefice, perché si dissolverebbe la percezione di ciò che è atto magisteriale e ciò che non lo è, frantumando quel concetto di infallibilità, di cui tanto a sproposito spesso si parla.
Esistono fautori dichiarati di un ridimensionamento del papato, che si richiamano generalmente a un passo di Giovanni Paolo II, nella enciclica Ut Unum sint del 25 maggio 1995, in cui Papa Wojtyla si dice disposto a “trovare una forma di esercizio del Primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova” (n. 88). Da qui la distinzione, fatta da Giuseppe Alberigo e dalla scuola di Bologna, tra l’essenza immutabile del papato e “le forme di esercizio” in cui esso si è espresso nella storia (Forme storiche di governo della chiesa, in “Il Regno”, 1° dicembre 2001, pp. 719-723). Il nemico di fondo è l’idea della “sovranità pontificia”, nata nel Medioevo, che sarebbe all’origine della deviazione del papato dal suo spirito originario. Dalla metà del Quattrocento, secondo un altro storico bolognese, Paolo Prodi, si è avviata una metamorfosi del papato che ha toccato l’istituzione nel suo complesso, portando non solo ad un mutamento dei connotati istituzionali dello stato pontificio, trasformato in principato temporale, ma anche ad una riformulazione del concetto di sovranità ecclesiastica, plasmata su quella politica. Vittorioso sul conciliarismo, il papato viene però sconfitto dallo stato moderno, poiché, mentre la chiesa si secolarizza, lo stato si sacralizza (Il sovrano Pontefice, Il Mulino, Bologna 1983, p. 306). A partire dalla Rivoluzione francese. però, la chiesa, in fruttuoso rapporto dialettico con il mondo moderno, avrebbe iniziato a liberarsi dalle pastoie del passato. Malgrado alcune fasi regressive, rappresentate soprattutto dai pontificati di Pio IX, Pio X e Pio XII, il Concilio Vaticano II segna finalmente, secondo Alberigo e i suoi discepoli, il momento della “svolta”, liquidando la dimensione giuridico-istituzionale della chiesa e aprendosi a una nuova visione di essa fondata sul concetto di “comunione” e di “popolo di Dio”.
Queste tesi sono state riproposte, sul piano teologico, in un recente libro che il decano degli ecclesiologi italiani Severino Dianich ha dedicato al ministero del Papa (Per una teologia del papato, Cinisello Balsamo, San Paolo 2010). Il centro del discorso è il passaggio da una visione giuridica della chiesa, basata sul criterio di giurisdizione, a una concezione sacramentale, basata sull’idea di comunione. Il nodo del problema risale alla discussione che si ebbe in concilio sulla interpretazione del n. 22 della Lumen Gentium e sulla Nota praevia che a questo documento seguì durante quella che i progressisti definirono la “settimana nera” del Vaticano II. I rapporti tra il Papa e i vescovi, dopo il Vaticano II, secondo Dianich, non possono più essere improntati alla delega e alla subordinazione. Il Papa non governa “dall’alto” la chiesa, ma la guida nell’ordine della comunione. Il suo potere di giurisdizione verrebbe infatti dal sacramento e, sotto l’aspetto sacramentale, il Papa non è superiore ai vescovi. Egli, prima di essere pastore della chiesa universale, è vescovo di Roma, e il primato che sulla chiesa universale esercita non è di governo ma di amore, proprio perché, ontologicamente, come vescovo, il Papa è sullo stesso piano degli altri vescovi. Per questo Dianich vorrebbe attribuire maggior potere al collegio episcopale attribuendo a esso la possibilità di legiferare autorevolmente. Il Papa dovrebbe esercitare il suo primato in maniera nuova, associando al suo potere organi deliberativi o consultivi, quali possono essere conferenze episcopali, sinodi, o comunque organismi permanenti, che lo coadiuvano nel governo della chiesa. Si tratterebbe di un primato di “onore” o di “amore”, ma non di governo e di giurisdizione della chiesa.
Queste tesi però sono, in primo luogo, storicamente false. La storia del papato non è infatti la storia di forme storiche diverse e tra loro confliggenti, ma l’evoluzione omogenea di un principio di suprema giurisdizione presente nelle parole di Gesù Cristo che a san Pietro e a lui solo disse: Tu sei Pietro e su questa Pietra edificherò la mia chiesa (Mt. 16, 14-18). Quando san Clemente (92-98 o 100), terzo successore di Pietro come vescovo di Roma, agli inizi dell’impero di Nerva (circa il 97), intervenne per ristabilire l’unità nella chiesa di Corinto, sconvolta da una violenta discordia, si richiamò al principio di successione stabilito da Cristo e dagli apostoli, esigendo obbedienza e minacciando persino sanzioni qualora le sue disposizioni non venissero eseguite (Lettera Propter subitas ai Corinzi, in Denz-H, nn. 101-102). Il tono autorevole della lettera e la venerazione con cui essa fu accolta sono una prova chiara del Primato del vescovo di Roma alla fine del primo secolo.
Circa dieci anni dopo, sant’Ignazio, vescovo di Antiochia, durante il viaggio da Antiochia a Roma, dove fu martirizzato, scrisse una lettera ai romani in cui riconosce alla chiesa di Roma una posizione di preminenza sull’intera chiesa universale, affermando: “Voi avete istruito gli altri ed io desidero che restino ferme quelle cose che voi prescriveste col vostro insegnamento” (Epistula ad Romanos, 3, 1). La sua affermazione, tanto spesso citata a sproposito, secondo cui la chiesa di Roma “presiede all’agape”, va intesa nel suo retto senso. L’“agape”, non è generica “carità”, ma è, per Ignazio, la chiesa universale (che egli per primo chiama cattolica), unita dal vincolo dell’amore.
 Nel corso dei secoli il Primato pontificio, concepito come principio attivo e centrale di governo della chiesa universale, rimase la nota caratteristica del papato, così come la Costituzione monarchica e gerarchica continuò a caratterizzare la chiesa nel corso dei secoli. Nelle epoche che la chiesa attraversò, ogni qual volta il pontificato è stato debole, assente o inefficace, si sono prodotti scismi, eresie, sconvolgimenti religiosi e sociali. Al contrario, le grandi riforme e la rinascita della chiesa si sono avute con papi che hanno esercitato il loro governo nella pienezza dei loro poteri, da san Gregorio VII a san Pio X.
Il munus specifico del Sommo Pontefice non consiste nel suo potere di ordine, che egli ha in comune con tutti gli altri vescovi del mondo, ma nel suo potere di giurisdizione, che lo distingue da ogni altro vescovo, perché solo nel suo caso questo potere è pieno ed assoluto ed è fonte del potere degli altri vescovi. Il potere di Magistero fa parte del primato di giurisdizione e l’infallibilità costituisce l’espressione più alta e perfetta del Primato pontificio, una sovranità ancor più necessaria di quella delle società temporali.
Il potere di giurisdizione è eminentemente potere di governo. Il Papa è tale perché governa la chiesa esercitando una giurisdizione dottrinale e disciplinare che non può delegare: non esiste infatti una differenza tra il potere di governo e il suo esercizio, quasi immaginando la possibilità di un governo la cui caratteristica sia quella di non governare. L’essenza del papato ha in questo senso caratteristiche immutabili: è un governo assoluto, che non può essere delegato ad altri, né in tutto né in parte. Il papato è una monarchia assoluta in cui il Sommo Pontefice regna e governa e non può essere trasformato in una monarchia costituzionale, in cui il sovrano regna ma non governa. Un cambiamento di tale governo non toccherebbe la forma storica, ma l’essenza divina del papato.
Non si tratta di un’astratta diatriba, ma di un problema teologico dalle concrete ricadute storiche. L’epoca della mondializzazione dei mercati e della rivoluzione informatica ha visto il tracollo degli stati nazionali, sostituiti da nuovi poteri, finanziari e mediatici. Ma il caos e la frammentazione e la conflittualità dei nuovi scenari derivano proprio da questa perdita di sovranità, di cui è eloquente esempio l’Unione Europea nata dai Tratti di Maastricht, che non si presenta come un “super-Stato” europeo, ma come un non-stato, caratterizzato dalla moltiplicazione dei centri di decisione, e dalla confusione dei poteri
L’autorità e la forza degli Stati nazionali e delle democrazie rappresentative si sbriciola e il vuoto è occupato da lobby ideologiche e finanziarie, visibili e occulte. La chiesa cattolica dovrà modellarsi su questo processo di polverizzazione, autodemolendosi? Di fronte al relativismo, la chiesa dovrà accantonare l’infallibilità, come chiede il pastore valdese Paolo Ricca (il Foglio, 19 marzo 2013), per presentarsi al mondo debole e rinunciataria o non piuttosto servirsi di questo carisma, che essa sola possiede, per contrapporre la sua sovranità religiosa e morale alle macerie della modernità? L’alternativa è drammatica, ma ineludibile.
Quel che è certo è che la domanda “chi è oggi il Papa?”, prima che ai mass media va rivolta alla teologia, alla storia e al diritto canonico della chiesa. Essi ci rispondono che, dietro le persone di Benedetto XVI e di Francesco, esiste un trono pontificio istituito da Cristo stesso. Papa san Leone Magno, che può essere considerato il teologo più completo del papato nel primo millennio, spiegò con chiarezza il significato della successione petrina, riassumendola nella formula: “Indegno erede di san Pietro”. Il Papa diveniva l’erede di san Pietro per quanto riguardava il suo status giuridico e i suoi poteri oggettivi ma non per quanto riguardava il suo status personale e i suoi meriti soggettivi. La distinzione tra l’ufficio e il detentore dell’ufficio, tra la persona pubblica del Papa e la sua persona privata è fondamentale nella storia del papato.
Il Papa è il vicario di Cristo che in suo nome e per suo mandato governa la chiesa. Prima di essere una persona privata, egli è una persona pubblica; prima di essere un uomo è un’istituzione: prima di essere il Papa è il papato, in cui si riassume e concentra la chiesa che è il Corpo mistico di Cristo.

sabato 23 marzo 2013

Perché a Berlino non è più tabù l’euro diviso tra “virtuosi” e “non”, di Marco Valerio Lo Prete


Cipro spazientisce


Sia i socialdemocratici sia il Bundestag studiano un’Eurozona con dentro la Francia (ma non per forza l’Italia)

“Cipro non metta troppo alla prova la pazienza dei paesi dell’Eurozona”. Questa la frase che ieri mattina avrebbe pronunciato la cancelliera tedesca, Angela Merkel, durante una riunione a porte chiuse del gruppo parlamentare del suo partito (Cdu-Csu). Come dire che i mercati puniranno alla loro maniera l’eventuale mancato salvataggio della piccola isola eurodotata, ma anche la leadership tedesca non avrà un atteggiamento passivo, essendo pronta perfino a spingere Nicosia fuori dalla moneta unica. D’altronde, come si evince da recenti dibattiti interni all’establishment tedesco, l’idea di un’Eurozona divisa in due – con un nucleo forte di paesi “virtuosi” che si emancipa dagli altri, magari anche dall’Italia – gode oramai di piena cittadinanza. Perfino a sinistra.
Secondo uno studio appena pubblicato dalla Friedrich Ebert Stiftung, la fondazione affiliata all’Spd, gli “scenari futuri per l’Eurozona” sono quattro: agli estremi ci sono il “completamento dell’Unione monetaria con un’unione fiscale e politica” e il “break-up dell’euro”; in mezzo l’idea che  l’Eurozona se la possa cavare improvvisando di giorno in giorno oppure un’inevitabile divisione in due dell’Eurozona. Quest’ultimo, secondo i socialdemocratici, è lo scenario “più probabile” da qui al 2020 (anche se “il più desiderabile” resta quello dell’unione politica e fiscale). Come funzionerebbe? Con “l’evoluzione verso un’integrazione a due livelli, con la casa dell’euro che si fa più piccola e stabile, ma anche più escludente”. Il gruppo “core”, in questo caso, sarebbe quello che riuscirà a rispettare criteri di rigore fiscale e competitività sempre più stringenti. La Francia tra 7 anni sarà nel club dei “virtuosi”, secondo lo scenario, mentre l’Italia non è citata. “Sono un po’ sorpreso che la Fondazione dell’Spd lo dica esplicitamente, non sono affatto sorpreso che ci ragioni su”, dice al Foglio il britannico David Marsh, giornalista e storico del processo di integrazione europea, conoscitore del dibattito teutonico (che anima con suoi interventi sul quotidiano finanziario Handelsblatt). 
David Marsh, che scrive anche per il Wall Street Journal, è personalmente convinto che “l’Europa continuerà con la strategia del ‘tirare avanti barcamenandosi’. Il continente è in una situazione così disgraziata da non riuscire nemmeno a dare vita a una crisi decente”. Però osserva che in Germania, sulla scorta dell’instabilità cipriota e italiana, l’idea di separare le sorti dei paesi con la moneta unica “si sta rafforzando”. “L’effetto più importante della crisi cipriota lo vedremo sulla Germania. In Europa i tedeschi sono quelli con i maggiori risparmi, perciò percepiscono di più il pericolo. Temono che, se ci fosse un problema serio e strutturale nella moneta unica, i politici andrebbero a mettere le mani nelle loro tasche. L’ipotesi di un prelievo forzoso sui depositi che è stata ventilata per Cipro è come un genio uscito dalla lampada: sarà difficile farlo rientrare”. Quasi un tedesco su due (48 per cento), infatti, è preoccupato per i suoi risparmi. Non che le élite sembrino necessariamente più fiduciose delle masse.
Oltre allo studio dell’Spd, infatti, in queste ore è stato pubblicato un report della Stiftung Wissenschaft und Politik, pensatoio bipartisan del Parlamento tedesco, così intitolato: “Rafforzare il ‘cuore’ dell’Eurozona o dividere l’Europa?”. Al centro dell’analisi c’è la presa di coscienza del fatto che “l’integrazione differenziata” – con alcuni paesi che vanno avanti e spesso lasciano gli altri indietro – è ormai un dato di fatto. E nel futuro continuerà a essere così. Il voto italiano, secondo Marsh, ha esacerbato lo stato d’allarme in Germania: “Le elezioni sono state uno choc per i mercati. Questi hanno scoperto che a loro piaceva Mario Monti ma agli italiani non piacciono le politiche di Monti. Certo, l’economia italiana, come ha detto il presidente della Bce, Mario Draghi, va avanti con il pilota automatico, non potrà abbandonare presto l’austerità. Ma il voto ha un importante significato politico”.
Per lo storico ed euroscettico inglese, per esempio, “la rinnovata incertezza in Italia porterà Draghi a sposare una linea più conservatrice di politica monetaria. Risultato curioso: il voto anti austerity rafforzerà le posizioni della Bundesbank”. Un effetto simile vale anche per l’opposizione socialdemocratica a Merkel, in vista delle elezioni di settembre: “In Germania non si conquistano voti mostrandosi ‘morbidi’ coi paesi del sud. Senza contare che Cdu e Fdp, all’opposizione, sarebbero molto più critici verso le politiche europee del futuro governo”. La Francia, per “ragioni storiche” e interessi contingenti della Germania, è immune da questa robusta dose di scetticismo teutonico, ma in futuro anche per Parigi varrà la regola per cui “ai tedeschi non piace fare affari con le persone per cui provano pena, con i perdenti. Se Parigi non supererà gli esami in futuro, non resterà nelle grazie di Berlino”, conclude Marsh. Come a dire che per l’Italia i giochi sono già quasi fatti.

mercoledì 20 marzo 2013

Un mercato unico Euro-atlantico. Ecco l’arma per la ripresa, di Marco Valerio Lo Prete


Perché Bruxelles punta tutto sull’accordo di libero scambio con Washington. Parla il commissario De Gucht

Bruxelles. Liberalizzare la circolazione di merci e servizi attraverso l’oceano Atlantico è al momento la strategia più adatta per agganciare la ripresa economica. Con l’Unione europea che fatica a uscire dalla più grave crisi dagli anni 30 a oggi, e lo spirito riformatore che s’affievolisce nei diversi stati membri, infatti, un accordo di libero scambio con gli Stati Uniti è quanto di più concreto circoli nei palazzi di acciaio e vetro di Bruxelles, sicuramente più di decine d’impegni un po’ vaghi presi finora ai vertici intergovernativi dell’Ue. Certo, un “Free trade agreement” del genere non avrebbe effetti immediati, né assicurerebbe l’automatico riequilibrio delle economie all’interno dell’Eurozona – ha fatto capire il commissario al Commercio Karel De Gucht intervenendo nel fine settimana a un seminario dello European Journalism Centre cui il Foglio ha partecipato – ma fornirebbe una boccata d’ossigeno all’Europa.
“Il commercio è importante per l’Europa, anzi è necessario – dice il belga De Gucht – Nel 2011 e nel 2012 ha sostenuto le sorti dell’Unione generando da solo un tasso di crescita dello 0,6 per cento, e quindi attutendo gli effetti della recessione”. Non solo: “La bilancia commerciale europea è sostanzialmente in pareggio, importazioni ed esportazioni si equivalgono. Se sommiamo manifattura, servizi e agricoltura, il nostro surplus è di 400 miliardi di euro nel 2011, esattamente quanto ci occorre, per esempio, per pagare gas, petrolio e altre materie prime minerali che siamo costretti a importare”. Nel febbraio scorso il lavoro dietro le quinte di De Gucht e della sua controparte americana, Ron Kirk, ha portato così alla dichiarazione congiunta del presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, del presidente della Commissione Ue, José Manuel Barroso, e del presidente del Consiglio Ue, Herman Van Rompuy, e all’ufficializzazione dell’avvio del negoziato tra Bruxelles e Washington “per un partenariato transatlantico su commercio e investimenti”. Secondo uno studio indipendente commissionato dall’esecutivo dell’Ue – ricorda De Gucht – a regime le esportazioni europee crescerebbero del 28 per cento, e in definitiva “un accordo ambizioso potrebbe portare guadagni economici per 119 miliardi di euro all’anno per l’Ue e di circa 95 miliardi per gli Stati Uniti. Ciò vale mezzo punto di pil aggiuntivo all’anno”.
La classica rimozione delle tariffe, tra due economie mature e integrate come quelle a cavallo dell’Atlantico, non sarà in realtà il piatto forte dell’intesa. Innanzitutto si tratterà di aprire i mercati d’investimenti, servizi e appalti pubblici. Ricordando per esempio, si legge nei documenti della Commissione, che “le aziende europee la cui attività dipende dagli appalti pubblici rappresentano il 25 per cento del pil e 31 milioni di posti di lavoro”. Se il mercato degli appalti a stelle e strisce si spalancasse davvero, magari sulla scorta di quanto concesso dal Canada che è in trattative molto più avanzate con Bruxelles, le opportunità non sarebbero poche. In secondo luogo, bisognerà appianare differenze regolatorie e ostacoli non tariffari, tra cui le norme relative ad ambiente o sicurezza. De Gucht ci tiene a precisare che non ci saranno cambiamenti alla legislazione restrittiva dell’Ue su materie sensibili come gli organismi geneticamente modificati (ogm) e gli ormoni per animali, ma poi lascia intendere che qualche concessione a un ambiente meno regolamentato come quello americano andrà pure fatta. Il settore delle auto è quello che il suo staff porta sempre come esempio, visto che sarà anche tra quelli che si avvantaggerà di più dall’accordo: ha senso che un’auto costruita e testata per gli standard di sicurezza in Europa debba essere nuovamente testata in terra americana? O che un motore costruito negli Stati Uniti ed esportato per assemblare un’auto in Europa debba sottostare a dazi? Chiedete a Sergio Marchionne, ad del gruppo transatlantico Fiat-Chrysler: risponderà che un accordo di libero scambio sarebbe una manna dal cielo. Idem per le Case tedesche, alcune delle quali hanno da tempo fabbriche negli Stati Uniti (come Volkswagen e Bmw), mentre meno contente – osservano gli analisti – potrebbero essere le concorrenti francesi. A Bruxelles si ragiona già sulla “tempistica ottimale” per chiudere l’intesa: una volta che il Consiglio dei 27 capi di governo avrà approvato le “direttive di negoziato” proposte dalla Commissione, cioè entro l’estate, saranno sufficienti “due anni” per limare ogni divergenza tra Bruxelles e Washington, questo l’obiettivo (non ufficiale) cui punta la Commissione. “I benefici per Stati Uniti ed Europa non saranno realizzati a spese di altri partner globali, anzi”. E’ il caso della Cina, anche se oggi “non è il momento di discutere un accordo di libero scambio con Pechino che esita perfino a garantire il libero accesso degli investimenti”.

E se si avvantaggiasse troppo Berlino?

Diverso, e più politicamente sensibile, il discorso sulla distribuzione di vantaggi e svantaggi all’interno dell’Ue. “Le resistenze all’accordo nascono dalle differenze tra stati: alcuni sono in surplus, come la Germania, altri in deficit – prosegue De Gucht – Inoltre, mentre i benefici saranno piuttosto diffusi, gli svantaggi saranno concentrati in alcuni settori precisamente localizzati”. Ciò detto, “questo accordo di libero scambio, più di altri dello stesso genere, offrirà benefici che sarà possibile distribuire equamente. Gli Stati Uniti infatti sono un mercato dove la certezza del diritto è massima, perciò aperto a tutti i concorrenti”. Toccherà ai paesi membri, dunque, saper cogliere le occasioni di espansione. De Gucht fa l’esempio di Portogallo e Spagna, paesi aiutati da programmi ufficiali dell’Ue (Madrid solo per il settore bancario), che già oggi starebbero guadagnando in produttività e migliorando la loro bilancia commerciale: “Nel lungo periodo, però – ammette De Gucht che pure non fa mistero di essere sostenitore di una cura fatta di austerity e riforme per i paesi del Mediterraneo – la riduzione del costo del lavoro non è la soluzione. Piuttosto, attraverso investimenti in formazione, ricerca e sviluppo, occorre attrezzarsi per esportare prodotti ad alto valore aggiunto”.
Il traguardo non è ugualmente distante per tutti, però. Non rischia forse quest’intesa di premiare i grandi paesi esportatori, Germania in primis, che in molti casi hanno già visto aumentare dall’inizio della crisi il loro saldo commerciale? De Gucht non conferma, ma risponde con diplomazia: “La mia responsabilità riguarda il commercio estero. E’ vero però che il lavoro di altre commissioni, come quella per il Mercato interno che dovrebbe spingere gli stati sulla via delle liberalizzazioni di servizi e professioni (lo suggerì nel 2010 il Rapporto di Mario Monti per Barroso), procede più a rilento. Dovremmo fare di più in questo senso”. Altrimenti, ma questo lo aggiungiamo noi, nemmeno un accordo di libero scambio con gli Stati Uniti contribuirà a rendere più equilibrato il processo di aggiustamento (di conti pubblici e competitività) in corso da mesi in Europa.

lunedì 18 marzo 2013

Il massacro dei lumi, di Giulio Meotti


I “gufi maledetti” che in Vandea si opposero alla Rivoluzione. La Francia dibatte se riconoscere il genocidio

La Vandea è nomen omen del massacro di innocenti, al pari della notte di San Bartolomeo, di Guernica, di Srebrenica.Eppure in Francia, a distanza di oltre due secoli, la Vandea resta uno scandalo difficile da maneggiare. La parola “Vandea” fino a pochi anni fa era sinonimo di cattolico reazionario. Sono i “chouans”, gufi maledetti. Baciapile, nemici della Rivoluzione, servi dei nobili, sanguinari. Di Vandea si è tornati a parlare in Francia, in Parlamento, sui giornali e sugli schermi televisivi. L’Ump, il partito di opposizione, ha presentato in Assemblea nazionale un disegno di legge che ha lo scopo di riconoscere il “genocidio vandeano”, che ebbe luogo, a più riprese, tra il 1793 e il 1796 per opera delle truppe rivoluzionarie di Robespierre nei confronti degli abitanti della regione contadina della Vandea. I sostenitori della tesi del genocidio parlano di una “congiura del silenzio”, in cui la politica e la storiografia avrebbero cospirato perché cadesse nell’oblio il grande sacrificio dei vandeani, colpevoli di aver difeso le loro convinzioni religiose contro il nuovo potere ateo e giacobino. Le “colonne infami” repubblicane compirono spietati massacri contro i vandeani, lasciando sul terreno dai duecentocinquanta ai trecentomila morti.
“Se approvasse la proposta sul genocidio, la Repubblica accetterebbe per la prima volta di guardarsi allo specchio”, ha scritto sulla rivista Causeur lo storico Frédéric Rouvillois. “Per la prima volta riconoscerebbe il terribile delitto che ha segnato l’inizio della propria storia”. Di parere opposto lo storico della Rivoluzione francese, Jean-Clément Martin: “I crimini sono crimini, ma manca la logica”. Significa che i vandeani non furono sterminati in quanto tali, ma sono stati vittime di una guerra civile. Lo spiega così Alain Gerard: “La Rivoluzione non poteva ammettere che il popolo si ribellasse contro di lei. Per questo la Vandea doveva scomparire”.
La tesi del genocidio è stata portata avanti da Reynald Secher, uno dei maggiori storici delle guerre vandeane, secondo il quale “quelle rappresaglie non corrispondono agli atti orribili, ma inevitabili, che si verificano nell’accanimento dei combattimenti di una lunga e atroce guerra, ma proprio a massacri premeditati, organizzati, pianificati, commessi a sangue freddo, massicci e sistematici, con la volontà cosciente e proclamata di distruggere una regione ben definita e di sterminare tutto un popolo, di preferenza donne e bambini” (“Il genocidio vandeano”, Effedieffe Edizioni, Milano 1989).
La Vandea oggi è mito e tabù, tanto che il massacro alla chiesa di Petit Luc a Roche sur Yon viene accostato a quello nazista di Oradour nel 1944. Il leader della gauche militante Jean-Luc Mélenchon ha protestato vivacemente per un programma televisivo andato in onda su France 3, dove Robespierre viene chiamato “il boia della Vandea” (le bourreau de la Vendée). Anche il settimanale Nouvel Obs attacca il documentario di Franck Ferrand, in cui le armate giacobine vengono accostate alle Einsatzgruppen naziste. I preti che insorgono in Vandea erano chiamati “corvi neri”. Scortate da gendarmi mal vestiti, con la coccarda tricolore sui cappellacci, le carrette della Rivoluzione erano cariche di questi preti refrattari detti “insermentés”, quelli che non hanno giurato, che hanno mantenuto fedeltà all’autorità del Pontefice, cancellata per decreto. Georges Jacques Danton avrebbe voluto fare un mazzetto di tutti i preti refrattari su cui si riusciva a mettere le mani, imbarcarli a Marsiglia e scaricarli da qualche parte sulle coste dello stato della chiesa, come una trentina di anni prima Sebastião José de Carvalho y Melo, marchese di Pombal, illuminato primo ministro dell’illuminato re Giuseppe I, aveva tentato di fare con i gesuiti espulsi dal Portogallo.
Tutti i libri in latino, fossero pure i “Colloqui” di Erasmo da Rotterdam, finirono nel fuoco. I preti nella trappola di Rochefort furono più di quattrocento. Nelle loro ciotole di legno la Rivoluzione versò solo carne putrida, merluzzo andato a male, malsane fave di palude. L’acqua era infetta. A chi ne chiedeva di più, i fidati seguaci della Dea Ragione rispondevano di servirsi pure, mostrando a dito l’oceano. Vi furono presto casi di delirium tremens, di follia. In poche settimane fu un’ecatombe di sacerdoti. I guardiani abbandonarono la nave. I morti venivano scaraventati in mare o seppelliti nella palude. Per non sbagliare qualcuno venne sepolto mentre ancora respirava.
In Vandea la guerra non ebbe un centro, ma era dappertutto, perché ovunque vi fosse un vandeano, fanciullo o adulto, uomo o donna che fosse, là per la Repubblica si trovava un “soldato nemico”. Nessuna delle regole dell’antica arte militare fu rispettata in quella guerra, perché fu la “prima guerra moderna”, in cui dei civili si fece carne da macello. In Vandea le armi principali furono le preghiere nelle chiese solitarie, le corone di rosario agli occhielli, i “sacri cuori” cuciti agli abiti, le processioni e le riunioni nei boschi, i giuramenti di rifiutarsi al reclutamento, i racconti dei miracoli, fu la rivolta di tutto un popolo, in cui le congiure erano nascoste dietro l’altare di ogni borgo contadino. I sacerdoti officiarono nelle brughiere e nelle paludi. Per primi s’armano i contadini. Mentre altrove in Francia sono state le classi superiori ad avere spinto il popolo, nella Vandea cristianissima è il popolo a incitare le classi superiori. A dispetto di certa storiografia, i contadini della Vandea non erano monarchici più di altri, non furono supini sostenitori dell’Ancien Régime. Erano profondamente cattolici. L’origine di questa fedeltà vandeana alla chiesa ebbe radici antiche, affonda in un passato di simpatie calviniste e nell’opera di catechizzazione dei missionari della Compagnia di Maria e delle Figlie della Saggezza.
Il generale vandeano era un venditore ambulante. Si chiamava Jean Cathelineu, per tutti “il santo d’Anjou”. E’ intento a impastare il pane, quando sente la voce che gli comanda di alzarsi e mettersi a capo di questa guerra santa. Guida una folla armata di falci, bastoni e pochi fucili, in cui le donne, nei campi e nei boschi, pregano in ginocchio per la vittoria dei loro mariti e figli. Da ogni angolo della regione si leva un augurio che è un grido di odio verso i giacobini e il loro ateismo. I vandeani conquistano le città e poi le abbandonano. La facoltà di dissolversi e ricomporsi è la loro forza e la loro debolezza. Guidati dal santo di Anjou attraversano a decine di migliaia la Loira per liberare Nantes, per coinvolgere nella loro guerra i fieri “chouans” realisti della Bretagna.
Papa Karol Wojtyla ha beatificato, durante il suo pontificato, 164 di questi “martiri” della Rivoluzione francese. Nel corso di una controversa visita in Vandea, pronunciò un discorso ben lontano dal revanchismo. Nel rendere onore ai vandeani caduti nell’impari lotta contro le armate illuministe, Giovanni Paolo II sottolineò la loro testimonianza di fede, ma trascurò, se non addirittura condannò, il senso politico della controrivoluzione. Forzando un po’ la storia, il Papa affermò che anche i vandeani “desideravano sinceramente il necessario rinnovamento della società”, circoscrisse alla difesa della libertà religiosa la loro ribellione, non tacque i “peccati” di cui anch’essi si erano macchiati nell’asprezza della lotta (sanguinose furono le rappresaglie vandeane contro i rivoluzionari).
Anche nella chiesa cattolica ci sono opinioni differenti sulla Vandea. Padre Giuseppe De Rosa sulla Civiltà Cattolica ad esempio ha scritto che la guerra di Vandea di due secoli fa andrebbe guardata con maggiore “spirito critico”, senza farne una “bandiera” e, tanto meno, il “simbolo dell’autentico cristianesimo”. Di diverso avviso l’arcivescovo di Bologna, cardinale Giacomo Biffi, secondo il quale “in quanto è avvenuto in Vandea trovano le loro premesse le stragi che hanno insanguinato l’intero XX secolo in nome o di un assurdo ideale di giustizia, o di un’aberrante esaltazione di una nazione o di una razza, o di un egoismo mascherato da civile comprensione”.
La Vandea come preludio di Auschwitz, del Ruanda, del Gulag. Lo storico della Rivoluzione francese Jules Michelet parla così dei vandeani: “Ci imbattiamo in un popolo sì stranamente cieco e sì bizzarramente sviato che si arma contro la Rivoluzione, sua madre. Scoppia nell’ovest la guerra empia dei preti”. Anche un figlio dei Lumi come Andrè Glucksmann ha definito la Vandea “la prima Glasnost dopo i giorni del Terrore”. E’ la rivelazione del male compiuto da Robespierre. E anche Jean Tulard, docente all’Università Paris IV ed esperto di Vandea, paragona le azioni dei giacobini agli eccidi ordinati da Stalin. Gli storici non amano i paragoni con l’Olocausto. Ma della Vandea parlano come di un “popolicidio”, mentre a lungo storici marxisti hanno letto la guerra di Vandea come una guerra della borghesia centralizzatrice delle città contro il popolo contadino.
Varrà la pena di ricordare che i vandeani sono stati sterminati con metodi non dissimili da quelli nazisti. Così si legge sul Bollettino ufficiale della nazione: “Bisogna che i briganti di Vandea siano sterminati prima della fine di ottobre. La salvezza della patria lo richiede”. I vandeani sono considerati degli “ominidi”, delle sottospecie di uomini, e in quanto tali non aventi diritto a un territorio.
Il nome stesso Vandea viene eliminato, deve scomparire. Si assegna un nuovo nome alla Vandea chiamandola “dipartimento Vendicato”, per esprimere appunto questa volontà di ripopolare quella parte di Francia un tempo abitata da “cattivi francesi”.
Quello della Vandea è il primo genocidio della storia ideologica del mondo contemporaneo. Le Colonne infernali, tagliagole al comando del generale Louis Marie Turreau, devastarono la regione con feroce acribia cartesiana. Fucilazioni, annegamenti, falò di parrocchie zeppe di civili, camere a gas. C’era l’onta di un pezzo di Francia che aveva osato levarsi contro la volonté générale, ma anche il diffondersi d’idee malthusiane in una Francia attanagliata dalla fame per colpa della stessa rivoluzione. Così i giacobini concepirono, votarono all’unanimità e realizzarono l’annientamento di un gruppo umano religiosamente identificabile. Con ben due leggi, scritte e conservate negli archivi militari: il 1° agosto si decise la distruzione del territorio, degli abitati, delle foreste e dell’economia locale; il 1° ottobre si ordinò lo sterminio degli abitanti, prima le donne (“solchi riproduttori”) poi i bambini. Leggi in vigore fino alla caduta di Robespierre, nel luglio 1794. Tutto come Hitler prima di Hitler. Si usò in Vandea il termine “race”: un vocabolo che, di conio illuminista (Voltaire, Buffon, l’Encyclopédie), produsse lì subito l’idea di una “race maudite” da estirpare. Bertrand Barère, membro del “Comité de salut public”, gridava dalla tribuna: “Quelle campagne ribelli sono il cancro che divora il cuore della Repubblica francese”.
Quanti furono i morti? Un vandeano su tre? Centoventimila o seicentomila, come sostiene lo storico Pierre Chaunu? “Qualsiasi rivoluzione scatena negli uomini gli istinti della più elementare barbarie, le forze opache dell’invidia, della rapacità e dell’odio”, disse il grande scrittore russo Aleksandr Solzenicyn quando inaugurò a Lucs-sur-Boulogne un memoriale dedicato ai martiri del massacro perpetrato in questa piccola località dalle truppe repubblicane del generale Cordelier. In poche ore, fra il 28 febbraio e il primo marzo del 1794, furono uccise 564 persone, fra cui 110 bambini al di sotto dei sette anni. “Il XX secolo ha notevolmente ottenebrato l’aureola romantica della rivoluzione del XVIII secolo”, disse ancora l’autore di “Arcipelago Gulag”.
Nonostante le esecuzioni sommarie di Angers, nonostante le “noyades”, gli annegamenti notturni a Nantes, in cui senza processo in due mesi vennero gettati nell’estuario della Loira da due a tremila tra preti “refrattari”, la resistenza della Vandea non venne domata. Per vincere i vandeani, caduto il Comitato di salute pubblica, la Rivoluzione pensò di ricorrere a “la douceur”, alla dolcezza. Si consigliò ai soldati dalla casacca azzurra di partecipare alle funzioni nei villaggi, di rispettare i preti e la fede della povera gente. Alla fine era la Vandea che aveva vinto, seppure da un immenso cimitero.
Al termine della guerra, il generale francese Joseph Westermann spedì una breve lettera al Comitato di salute pubblica: “Non c’è più nessuna Vandea. Secondo gli ordini che mi avete dato, ho massacrato i bambini sotto i cavalli e le donne non daranno più alla luce briganti. Non ho prigionieri. Li ho sterminati tutti”. Sembra un inveramento delle parole pronunciate negli anni del Terrore dal celebre moralista Chamfort: “La Rivoluzione è un cane randagio che nessuno osa fermare”.

Andrea's Version, di Andrea Marcenaro

16 marzo 2013

Sta in mezzo alla gente normale, non usa l’automobile, va al lavoro a piedi, se no prende l’autobus, al massimo la metropolitana, paga l’alberghetto, paga il ristorantino, veste sobriamente, non gradisce i capi vistosi, predilige il colore più smorzato, è umile, sobrio, colto, viene dalla scuola migliore, i suoi allievi lo adorano, aborre l’esibizione dei titoli onorifici, adora le cose semplici della sua terra, non ostenta, raccomanda la modestia, l’impegno verso gli altri, ha accettato soltanto per rendere un servizio, è molto rispettato dai colleghi, rispettato moltissimo all’estero, lo appoggiano da una parte e dalla parte opposta, è stato chiamato da molto in alto per sconfiggere la crisi, gli hanno conferito a questo fine una carica a vita, non sarà che alla fine della fiera presenta anche questo una lista tutta sua?

domenica 17 marzo 2013

Apocalypse Bloy, di Marina Valensise


Paradossale, provocatore, antisemita. La tigre Léon che scoprì la fede e da cristiano anticlericale dichiarò guerra al moderno

Era un tranquillo pomeriggio di fine estate, un sabato, il 19 settembre 1846, e aveva appena finito di piovere quando due pastorelli dell’Isère che badavano alle mucche sul Planeau, una montagna delle Alpi a 1.800 metri a metà strada tra Grenoble e Gap, videro d’improvviso una palla di luce posarsi sul fondo di una vallata. Sembrava un sole caduto a mezza costa. S’avvicinarono e scorsero una donna seduta, il viso nascosto tra le mani, i gomiti sulle ginocchia. La Signora piangeva. Li guarda, si alza in piedi e continuando a piangere si rivolge loro: “Avvicinatevi figli miei. Non abbiate paura: sono qui per annunciarvi una grande notizia”. E’ alta, bella, luminosa. Porta una tunica lunga fino ai piedi e un grembiule da contadina stretto in vita, ha uno scialle incrociato sul petto e i capelli raccolti in una cuffia. Lo scialle, come pure la testa e i piedi sono orlati di rose e sul capo risplende la luce abbagliante di una sorta di diadema. Le spalle invece sono avvolte in una lunga catena a maglie larghe, mentre dal collo le pende una catenina con appeso un crocefisso, che finisce sui lati del braccio più corto in un martello e in una tenaglia.
I due pastorelli restano senza parole. Maximin Giraud, 11 anni, tipo sveglio, birbantello, orfano di madre e inviso alla matrigna, osserva la visione senza credere ai suoi occhi. Per prendere confidenza, si mette a far girare il cappello sulla punta del bastone e inizia a lanciare dei sassolini sotto i piedi della Signora, che levita sull’erba verde del prato. La sua compagna di pascolo è un po’ più grande di lui, ha quattordici anni, si chiama Mélanie Calvat, è la quarta figlia dei dieci avuti da un boscaiolo che vive di espedienti, vicino di casa del pastore che ha assoldato Maximin. Lei però diversamente da lui è una tipa schiva, taciturna, timida, al punto che la madre, che è proprio amorevolissima, l’aveva soprannominata “la muta, la lupa, la selvaggia”. Anche lei perfettamente analfabeta, mai andata a scuola, parla solo dialetto, e vive in mezzo ai prati all’aria aperta, badando alle mucche e alle pecore, soffrendo il freddo e la fame, mangiando pane e formaggio. Sono questi due bambini poverissimi, innocenti, incolti, sguarniti di tutto, di affetto, di ricchezza, di cultura, “le cere vergini” scelte da Maria Vergine per trasmettere loro il suo messaggio a La Salette. Per annunciare l’ira di suo figlio Gesù Cristo nei confronti di un popolo di miscredenti, che da cent’anni ha abbandonato la preghiera girando le spalle alla chiesa, e perciò adesso deve aspettarsi solo fame e malattie, stenti, guai e carestie, a meno che non ritorni alla fede. “Se il mio popolo non vuole sottomettersi, sono costretta a lasciare libero il braccio di mio figlio. Esso è così forte che non posso più sostenerlo”, dice infatti la Madonna ai pastorelli del Delfinato. Maria Vergine soffre per loro e per tutta l’umanità. E li invita a pregare continuamente suo figlio, perché non li abbandoni alla loro sorte di miscredenti. Nel suo messaggio ai due pastorelli analfabeti, la Madonna spiega pure cos’è che appesantisce tanto il braccio di suo figlio: è l’attivismo sfrenato, l’operosità senza fede, la rinuncia a Dio, causa prima delle sue lacrime e del suo pianto. “Vi ho dato sei giorni per lavorare, mi sono riservata il settimo, e voi non me lo volete concedere… anche i carrettieri non sanno fare altro che bestemmiare il nome di mio figlio”, dice la Madonna in lacrime, prima di lanciare la sua profezia apocalittica annunciando il castigo dei colpevoli. “Se il raccolto si guasta la colpa è vostra, le patate continueranno a marcire, il grano seminato sarà mangiato dagli insetti, e quello che maturerà cadrà in polvere al momento della battitura”. Carestia e morte, e una nuova strage degli innocenti fra le braccia dei loro genitori sono i segni della punizione divina che solo la conversione e il ritorno alla fede potranno evitare. La Madonna di La Salette è la Vergine riconciliatrice dei peccatori, scriverà alla fine del secolo J. K. Huysman, scrittore convertito e grande esploratore della mistica cristiana, nel suo romanzo autobiografico sulla cattedrale di Chartres. E’ la Vergine venuta per le anime che amano il dolore e riveriscono la sofferenza di Cristo, nella loro devozione al sacrificio del Dio fatto uomo morto in croce.
L’apparizione della Vergine a La Salette è la seconda di una serie che per tutto l’Ottocento costella di miracolli la France profonde, scossa dai postumi della rivoluzione. Segue di sedici anni le cinque apparizioni dell’Immacolata a Parigi, davanti agli occhi di Catherine Labouré, una novizia del convento delle Figlie della Carità, nella rue du Bac, poi beatificata, e dalle quali scaturì la Medaglia Miracolosa, pegno di protezione e sorgente di grazia. E precede di dodici anni l’apparizione in una grotta di Lourdes di fronte a Bernadette Soubiros, un’altra povera pastorella dei Pirenei. Nel 1871 la Madonna comparve di nuovo in Francia davanti a quattro bambini di Pontmain nella Loira, durante l’avanzata delle truppe prussiane; e cinque anni dopo, nel 1876, ricomparve a Pellevoisin, nei pressi di Châteauroux di fronte alla contadina Estelle Faguette. Ma il miracolo di La Salette, col suo messaggio profetico, col suo monito apocalittico alla Francia postgiacobina e decristianizzata, con la sua messa in guardia contro i mali del positivismo, dell’abbandono della chiesa, del tradimento del Vangelo, e col suo invito estremo a convertirsi per evitare il castigo divino, darà adito a una lunga controversia che segnerà per sempre la vita dei pastorelli di Corps, e non solo la loro. 
Intanto passeranno sei anni prima che la chiesa prenda posizione. Il primo maggio 1852 il vescovo di Grenoble, considerata veritiera la testimonianza dei pastorelli, ordinerà la costruzione di un santuario a La Salette, ancora oggi meta di un impervio pellegrinaggio religioso. I due bambini però andranno incontro a un’esistenza difficile. Maximin, abbandonato a se stesso, cadrà nelle grinfie dei fanatici legittimisti, sostenitori di un sedicente figlio di Luigi XVI. Accusato di frode, peregrinerà da un seminario all’altro, finché non finirà per arruolarsi in Vaticano come guardia pontificia, prima di convertirsi, in modo però fallimentare, al commercio di liquori e fare quindi ritorno al suo paesello alpestre dopo la Guerra franco-prussiana. Lì, nel 1875, di fronte a una folla di devoti mariani, ripeterà per l’ultima volta il suo racconto dell’apparizione di vent’anni prima, morendo in grazia di Dio a soli quarant’anni. Mélanie Calvat, invece, pagò ancora di più le confidenze della Madonna. Novizia nel convento delle suore della Provvidenza, vedrà negarsi i voti dal nuovo vescovo di Grenoble per la troppa vanità o troppa superbia connessa all’essere diventata un’attrazione pubblica, e finirà segnata dal misticismo profetico degli integralisti cattolici che la trasformeranno in un oggetto di culto. “La missione dei pastorelli è conclusa, inizia quella della chiesa” proclama nel 1855 monsignor Ginoulhiac cercando di imporre una sterzata, ma nel frattempo la corrente mélanista è nata, fondata sulle parole di Mélanie e orchestrata in primo luogo dal profetismo apocalittico di Léon Bloy.
Perché oltre a cambiare la vita dei due pastorelli di Corps l’apparizione della Madonna a La Salette doveva cambiare anche quella di Léon Bloy, il più radicale degli scrittori cattolici francesi, l’integralista spregiatore dell’ateismo illuministico, il grande solitario nelle lettere di fine Ottocento, il cristiano anticlericale, apocalittico denunciatore di un mondo senza Dio, in marcia verso l’autodissoluzione, che dunque urge allertare, redimere, correggere o quantomeno, ma attivamente, fustigare. Nasce infatti col miracolo di La Salette la crociata cristiana di Léon Bloy e la sua battaglia teologica condotta sul filo di un’esegesi appassionata dove l’interpretazione dell’Antico Testamento nutre la comprensione del Nuovo, e dove i segni della profezia biblica si inverano nel messaggio cristiano. E’ una battaglia che molto deve all’incontro col predicatore Tardif de Moidrey, maestro nell’interpretazione figurale dell’Antico Testamento, e che segue passo passo le profezie di Mélanie Calvat. Léon Bloy interpreta e rielabora tutti i messaggi diffusi nel corso della sua vita dalla pastorella aspirante suora e novizia errante, così semplice di spirito da ignorare persino la differenza tra i sessi, da quando entra giovanissima al Carmelo di Darlington, in Inghilterra, dove resta dal 1856 al 1860, a quando approda a Cefalonia, fra le suore della Compassione di Marsiglia, sino al soggiorno italiano, a Castellammare di Stabia, dove resterà per 17 anni, scrivendo i suoi “segreti” e cercando di fondare la regola di un nuovo ordine religioso, che però sarà sempre osteggiato dal Vaticano, anche se questo era quanto le aveva detto la Madonna: “E’ giunto il tempo dei tempi, la fine delle fini”, tradurrà Léon Bloy. “E’ tempo che vengano a illuminare la terra… gli apostoli degli ultimi tempi, i fedeli discepoli di Gesù Cristo che hanno vissuto nel disprezzo del mondo e di se stessi, nella povertà e nell’umiltà, nel silenzio, nell’orazione e nella mortificazione, nella castità e nell’unione con Dio, nella sofferenza e ignoti al mondo”. Dopo un soggiorno a Cannes, Mélanie approda a Chalons sur Saône, e lì in rotta di collisione con le autorità ecclesiastiche finirà in tribunale contro il vescovo di Autun, finché nel 1892 non torna in Italia, nelle Puglie, dopo varie peregrinazioni a Messina, accolta dal canonico Annibale di Francia, e ancora a Diou, nell’Allier, dove inizia a scrivere lo straordinario romanzo della sua vita, per finire i suoi giorni nel 1940 in Altamura, dove oggi è sepolta ai piedi di un bassorilievo della Madonna che l’accoglie in cielo.
Sarà Léon Bloy il mélanista più accanito di Francia. Per tutta la vita cercherà di interpretare le parole e le visioni della povera pastorella scelta dalla Madonna per affidarle il suo segreto e annunciare un cristianesimo assoluto. Cercherà di dimostrare come lungi dall’essere una rozza selvaggia Mélanie fosse in realtà “un prodigio di santità sotto le sembianze del nulla, ignorante per quanto si può su tutto ciò che gli uomini insegnano ma terribilmente sapiente di ciò che solo Dio può insegnare”. Nel 1879 Léon Bloy ha trentatré anni quando sale per la prima volta in pellegrinaggio a La Salette e trova la sua strada mistico-teologica in cui incanalare la sua ansia di assoluto. Per rendersene conto, bisogna leggere “Il miracolo di La Salette” (Edizioni Medusa, 328 pagine, 25 euro), un libro appena uscito, a cura di Mario Porro, con prefazione di Alessandro Zaccuri, che raccoglie la prima traduzione dei tre scritti incompiuti sull’apparizione della Madonna (“Il Simbolismo dell’apparizione”, “Colei che piange”, e “Introduzione alla vita di Mélanie”), offrendo una testimonianza preziosa del lavorìo teologico che ispira uno dei grandi accusatori dei tempi moderni, fustigatore di quelle “cloache di impurità” che sono diventati i sacerdoti moderni, e della miseria contemporanea in cui annaspa l’umanità bestiale, ridotta ormai in balìa di una cieca brama di ricchezze e indifferente al Vangelo e al sacrificio di Cristo.
Ma chi era Léon Bloy? E cosa lo spinse a farsi interprete dei sogni, della visione, della “sapienza assoluta” di Mélanie, l’ancella del Sacro Cuore di Gesù, che non ha bisogno di comprendere, perché “sa per scienza infusa, primordiale, come Adamo ed Eva prima del peccato”, e soffre enormemente conoscendo “la miseria spirituale e l’insufficienza del Clero”? Era il figlio di un ingegnere ateo e anticlericale di Périgueux e di un’ardente cattolica di origine spagnola e soprattutto un cabalista nato, uno che credeva nei numeri, nel significato esoterico del grande firmamento divino che presiede la creazione, e dunque la nascita dell’uomo e la sua missione in terra. Era nato nel 1846 lo stesso anno in cui la Madonna è apparsa ai pastorelli di Corps. E questo per lui è già un prodigio in sé. E vivrà fino al 1917. Dopo essere “montato” a Parigi dalla natia Dordogna, come un qualsiasi Rastignac in cerca di fortuna, era cresciuto nella bohème letteraria del Quartiere latino, bazzicando la rivolta antiborghese nei circoli socialisti ispirati da Blanqui, e maturando come “un comunardo prima della Comune”. Nel 1867, l’incontro con Barbey d’Aurevilly segna per lui una svolta. Del romantico narratore legittimista sensibile al soprannaturale e molto in voga fra i decadenti, Baudelaire suo contemporaneo scriverà: “Vero cattolico, evocava la passione per sconfiggerla, cantando, piangendo, e gridando in mezzo alla tempesta, piantato come Ajace su uno scoglio di desolazione, aveva sempre l’aria di dire al suo rivale – uomo, fulmine, dio o materia – ‘Portami via, o io porto via te’, non poteva nemmeno più mordere su una specie assopita i cui occhi restano chiusi di fronte ai miracoli dell’eccezione”. Eppure su quel giovane provinciale in cerca di fortuna Barbey d’Aurevilly ebbe un’influenza determinante. Farà di Bloy il suo segretario, ricompensandolo con una formazione di prim’ordine, che presto sfocerà nella conversione, anzi nel ritorno alla fede perduta “a quindici anni, età in cui vediamo aggirarsi quel gran leone con la testa di porco della Pubertà”.
Forte del suo appoggio, Bloy si mette a scrivere per riviste militanti, dando sfogo al suo sdegno esorbitante, a una vena di inquisitore intransigente, pronto a dare battaglia alle chimere dell’illuminismo, all’egalitarismo, al progresso, e a confutare come una perniciosa illusione il dogma dell’autodeterminazione e della libertà di coscienza di origine protestante, nel tentativo strenuo di scongiurare il naufragio dell’umanità in balia della decristianizzazione e afflitta dalla rincorsa al profitto come fine ultimo dell’esistenza e scopo in sé. Sentite per esempio come sviluppa la parafrasi del messaggio della Madonna sessant’anni dopo il miracolo di La Salette: “La domenica si lavorò sempre di più e, soprattutto, si fecero lavorare i poveri. La Bestemmia divenne una toga virile, anche per le donne, un segno di forza e di indipendenza, come il tabacco o l’alcol. Si ambì a essere cani, figli di cane e persino nipoti di maiale, in tutte le epoche dell’anno indistintamente, e tale ambizione fu soddisfatta”. Sono parole scritte cent’anni fa, che però sembrano fotografare il nostro oggi. Bloy insomma è un grande reazionario apparentemente fuori tempo massimo, che continua a fare sentire la sua voce a dispetto del tempo. E’ l’ultimo profeta disarmato dell’epoca moderna, un dolorista nato, alfiere della sofferenza necessaria, “uomo di guerra”, come amava dire di sé, che rivolge il suo furore contro i potenti, gli ipocriti, i seduttori di anime, straziato com’è dalla pietà per gli umili, gli oppressi, i sofferenti. E’ un vinto della storia, perfetta incarnazione della rabbia disperata di un sopravvissuto in lotta contro il mondo pur sapendo che la sua è una battaglia perduta, anzi impossibile. “Un mostro così forte ha bisogno di settant’anni per finire di fermentare”, dirà di lui nel 1942 Ernst Jünger. Non si sbagliò per niente, e infatti ora ci siamo. L’ufficiale della Wehrmacht in servizio a Parigi durante l’occupazione nazista, scrittore in proprio e collezionista di insetti, berrà di quel francese purosangue tutto l’antisemitismo sulfureo, leggendone le profezie apocalittiche all’insegna della rivoluzione bolscevica, e trovando nei suoi scritti e nella perfezione del suo stile l’affinità profonda di un conservatore spietato, “malgrado i suoi scatti maniaci e ciechi contro tutto ciò che è germanico”. Jünger sarà un lettore esaltato di Léon Bloy, sino a diventarne il mallevadore infernale: “Non è ancora un classico, ma un giorno lo diventerà” annuncia nel “Diario parigino”, a settant’anni dalla sua morte. “Ci vorrà ancora del tempo perché decada tutto ciò che all’inizio vi era di transitorio”, assicura l’ufficiale tedesco, trovando in quel francese austero, solitario e sordo al progresso “un eremita antimoderno” al quale votare un culto devoto per “l’intangibilità dell’autore rispetto al domino della tecnica”.
Per quanto postumo, non poteva riscuotere elogio migliore Léon Bloy, anche a costo di finire nel comparto dei reietti, degli scrittori violenti, scandalosi, non commestibili, da maneggiare con cura, o non toccare affatto. Quando Roberto Calasso vent’anni fa pubblicò “Dagli Ebrei la salvezza”, pamphlet antisemita fra i più esplosivi dell’Ottocento (tesi: avendo gli Ebrei rifiutato il Messia, non resta loro che il suo esatto contrario, il danaro, l’altra faccia della divinità, e la sua croce), la grande germanista Renata Colorni per protesta si licenziò dall’Adelphi, e il grandissimo Sergio Quinzio contestò sul Corriere della Sera il giudizio sommario fornito da Guido Ceronetti e da Mario Andrea Rigoni (“Non lo si può ridurre a ‘delirio selvaggio’ (…) senza un minimo di partecipazione alle tragiche domande che Bloy affrontò nelle sue pagine e nella sua vita”). Eppure, il primo a pagare tanto scandalo e tanta originalità di pensiero fu lo stesso Bloy che visse una vita grama, mendica, solitaria, afflitto da lutti, vedovanze, figli in fasce morti di fame, pur di servire la sua natura ostica e coltivare la sua fama di uomo insopportabile. Appena gli presentavano qualcuno, lo salutava subito dandogli dell’imbecille. Era il suo modo di testare gli sconosciuti. Nato povero, vissuto di stenti, tormentato dalla penuria, s’era dato come pseudonimo Caïn Marchenoir, sintesi biblica del male e del negativo. Era un tipo violento, scontroso, odiatore del buon senso e del luogo comune. Quando venne arruolato da Barbey d’Aurevilly, si mise a scrivere un inno alla controrivoluzione, scegliendo Maria Antonietta come punto di fuga per la sua rilettura visionaria della storia, che molto deve al mito degli eroi di Carlyle. Quel pamphlet tradotto sempre da Adelphi, si legge ancora oggi come l’estrema apologia dell’ultima regina di diritto divino ghigliottinata dalla “canaglia”, implacabile atto d’accusa contro il principio della sovranità popolare e il tribunale rivoluzionario che ne consegue. A nulla valse tanto ardore. I legittimisti rimasero inorriditi dalla violenza dello stile, dalla passione degli argomenti. Reietto ed emarginato, Léon Bloy continuò la sua battaglia contro il mondo moderno, nutrendola di profetismo, dell’esegesi biblica in chiave simbolica e figurata, e canalizzando la sua foga antimoderna nel provvidenzialismo religioso, in cui ritrovare la predicazione di Bossuet, l’irrazionalismo teocratico di Joseph de Maistre, avvolgendo il suo furore nella spessa coltre di luci e tenebre della grande tradizione cristiana che fa dell’espiazione la via maestra per entrare nella città celeste. E’ questo a fare di Bloy un immenso inattuale, è questo il paradosso grazie al quale, più di chiunque altro, riesce a cogliere l’angustia del mondo in cui viviamo.

giovedì 14 marzo 2013

Francesco, il nome che è tutto riforma e obbedienza


Nessun Papa aveva osato

Nella storia della chiesa, nessuno ne aveva mai avuto il coraggio. E invece il coraggio di darsi per primo, da Papa, il nome del grande santo d’Assisi, l’ha trovato un gesuita, Jorge Mario Bergoglio, l’arcivescovo di Buenos Aires (e anche primo dell’ordine di Ignazio) salito al soglio di Pietro in una piovosa sera di marzo. Francesco è un nome impegnativo e amato, in Italia, perché san Francesco è il più importante dei suoi patroni. Ed è amato e diffuso anche nei paesi dell’America latina che, con l’argentino di orgine italiana Bergoglio, per la prima volta danno un Pontefice a Roma. Un Pontefice che è atteso da un compito molto difficile, almento tanto quanto quello di onorare il nome del santo di Assisi. Del giovane ricco e gaudente, del cavaliere esperto nel mestiere delle armi che scelse di diventare il poverello, di spogliarsi di tutto e di vivere la “perfetta letizia” che nasce, come lui insegnava, dalla carità, dall’umiltà, dall’imitazione di Cristo e dalla partecipazione alle sue sofferenze. Del poeta del “Cantico delle creature”, del santo della religiosità popolare che regalò alla tradizione cristiana il presepe, dopo aver voluto rappresentare a Greccio la natività vivente.
Francesco, fu, soprattutto, il profeta nel quale Innocenzo III (prima che il suo successore, Onorio III, nel 1223 approvasse formalmente la regola dell’ordine francescano) vide con lungimiranza la possibilità incarnata di un grande movimento di rinnovamento. Un rinnovamento che per Francesco fu improntato all’obbedienza al papato e al fermo rifiuto delle eresie, come quella catara, che andavano dilagando all’epoca in Europa, e che rischiavano di demolire la chiesa. Francesco è anche colui che, durante la quinta crociata, volle incontrare nel campo saraceno il nipote del Saladino, il sultano al Malik al Kamil, per convertirlo, discutere con lui e annunciargli la salvezza nel Vangelo. Attorno alle circostanze di quell’incontro, come sappiamo, molto si è dibattuto all’epoca del famoso discorso a Ratisbona di Papa Benedetto XVI.
Fraternità, povertà, umiltà, obbedienza, castità: i cardini della regola francescana, quelli che il santo di Assisi volle stabilire per i suoi fratelli, sembrano in questo momento quelli di cui la chiesa di Roma è accusata – spesso a torto e in malafede – di essere carente o dimentica, soprattutto nelle sue più alte gerarchie. Se nel nome scelto da Papa Bergoglio è contenuto un programma e la promessa di uno stile, Francesco è nome eloquente e certamente di buon auspicio e di grandissima storia. E’ grande anche la storia di san Francesco di Sales, un altro innovatore che nel Seicento ha lasciato il segno sulla spiritualità moderna. Ed è grande la storia di san Francesco Saverio, un altro gesuita e missionario spagnolo che  portò il vangelo in oriente. La chiesa si fa nuova rimanendo fedele a se stessa. Papa Francesco, il primo a darsi un nome così grande nella storia del cristianesimo, può ben dire di contare su grandi santi in paradiso.

Il pastore dalla vita semplice che chiede alla chiesa di non invecchiare, di Matteo Matzuzzi


Pioveva, alle 19,06, quando dal comignolo della Sistina è uscito prima solo accennato e poi prepotente lo sbuffo di fumo bianco che annunciava al mondo l’elezione del successore di Benedetto XVI, del nuovo Papa. Subito dopo, le campane di San Pietro hanno iniziato a suonare, seguite da quelle di tutta Roma. Un’ora dopo, il protodiacono Jean-Louis Tauran, affacciandosi dalla loggia delle Benedizioni, annunciava al mondo che il periodo di sede vacante era terminato. Jorge Mario Bergoglio, gesuita argentino, vescovo di Buenos Aires, è stato eletto Pontefice al quinto scrutinio. E’ stata necessaria solo una votazione in più rispetto alle quattro dell’aprile 2005 che portarono sul soglio petrino Joseph Ratzinger. Quindi, dopo altri minuti di attesa, ecco il Papa Francesco presentarsi al popolo. Emozionato, le mani lungo i fianchi, sorriso appena accennato. Senza stola (che indosserà solo per la benedizione Urbi et orbi, letta in modo semplice, interrompendo il tradizionale tono retto che accompagnava la solenne benedizione papale), senza la mozzetta rossa con il pelo bianco che pure Gammarelli aveva confezionato. “Vi do la benedizione, ma vi chiedo un favore. Prima che il vescovo benedica il popolo, vi chiedo che voi preghiate il Signore perché mi benedica. Facciamo in silenzio questa preghiera di voi su di me”, ha detto dopo il saluto alla folla e l’omaggio al “vescovo emerito”, Benedetto XVI. Prima, l’appello ai fedeli per cominciare “questo cammino della chiesa di Roma, vescovo e popolo, di fratellanza, amore, fiducia tra noi”.
Gesuita di origini italiane – suo padre era un ferroviere di Portacomaro d’Asti, tecnico chimico, professore di Letteratura e Psicologia, teologo, dal 1998 (alla morte del cardinale Quarracino) arcivescovo di Buenos Aires. Amante della vita monacale, quasi ascetica, Bergoglio è uomo semplice e schivo – nei giorni delle Congregazioni generali attraversava piazza San Pietro senza lo zucchetto rosso – assieme a Joseph Ratzinger fu il protagonista del Conclave del 2005. Su di lui, raccontarono resoconti di anonimi porporati, confluirono anche quaranta voti. Scesero solo quando lo stesso Bergoglio, durante il pranzo del secondo giorno di clausura nella Sistina, chiese ai suoi sostenitori di non votarlo. Troppo gravoso quel compito per lui. Otto anni dopo, la storia è stata diversa. Una scelta rapida, quella dei cardinali elettori, meditata e probabilmente programmata, almeno da un numero cospicuo di porporati insoddisfatti dalla gestione della curia degli ultimi anni. Un’elezione che guarda lontano dai palazzi del Vaticano, che va “fino quasi alla fine del mondo”.
La chiesa, per Jorge Bergoglio, deve andare per le strade, nelle piazze, nelle periferie. E’ lì che si evangelizza. In Argentina ha funzionato, spiegava lui stesso in occasione del Concistoro del febbraio 2012. “Si deve uscire da se stessi, evitare la malattia spirituale della chiesa autoreferenziale”, diceva. Se la chiesa rimane chiusa in se stessa, ricordava, “invecchia”. Ecco perché è indispensabile riscoprire la vocazione missionaria, abbandonare gli inutili orpelli, chiudere in un armadio simboli e segni dell’autorità. Quando i fedeli della diocesi di Buenos Aires organizzarono una colletta per il viaggio verso Roma, in occasione della sua creazione a cardinale, lui suggerì di cambiare programma: non venite a festeggiarmi, date il ricavato ai poveri. Loro ne hanno più bisogno.

sabato 9 marzo 2013

A Global "New Deal"?, by Yannos Papantoniou


The International Monetary Fund’s belated admission that it significantly underestimated the damage that austerity would do to European Union growth rates highlights the self-defeating character of “orthodox” recipes to address the causes of the debt crisis that followed the financial crash of 2008-2009.
This illustration is by Dean Rohrer and comes from <a href="http://www.newsart.com">NewsArt.com</a>, and is the property of the NewsArt organization and of its artist. Reproducing this image is a violation of copyright law.
Conventional theory suggests that a single country (or group of countries) consolidating its finances can expect lower interest rates, a weaker currency, and an improved trade position. But, because this cannot happen for all major economies simultaneously – one country’s (or group of countries’) austerity implies less demand for other countries’ products – such policies eventually lead to beggar-thy-neighbor situations. Indeed, it was this dynamic – against which John Maynard Keynes fought – that made the Great Depression of the 1930’s so grim.
Today’s problems are compounded by a lack of sufficient private demand – particularly household consumption – in the advanced economies to compensate for demand losses stemming from austerity. During the last two decades, consumption drove these countries’ economic growth, reaching historically high GDP shares.
Moreover, major advanced economies, such as the United States, Germany, and Japan, face longer-term fiscal problems in the form of aging populations or oversize welfare states, limiting their capacity to contribute to demand management. Recent moves to ease monetary policy have been a step in the right direction; but, so far, they have not proved to be a game changer.
For domestic demand to act as an engine of growth, policies should shift resources from investment to consumption. While the magnitudes involved are huge, they must be attained if an extended period of low growth, high unemployment, and declining living standards among the world’s poorest is to be avoided.
International economic policy coordination should be significantly strengthened in order to deal effectively with changes on such a scale. Start with Europe. It is by now patently obvious that austerity and domestic reforms are not enough to pull the eurozone’s periphery out of deep recession. Growing awareness of the failure of current policies is causing social discontent, civil disorder, and political instability, with the recently concluded Italian elections and the growing popular resistance to Greek reform efforts serving as a bellwether.
Returning the eurozone’s peripheral economies to the path of growth requires more than structural reforms and fiscal consolidation. It also requires a substantial reform of the monetary union’s system of economic governance, aimed at restoring financial stability and lowering borrowing costs, together with a boost in external demand in order to compensate for the effects of austerity.
Reforming governance implies significant progress toward economic unification: centralizing European debt through Eurobonds, mobilizing sufficient rescue funds, allowing the European Central Bank to intervene in the primary bond markets, and establishing both a fiscal and a banking union.
This is a tall order, in view of the reluctance of most EU member states to cede competences to European institutions. But Europe should move more decisively in this direction. Otherwise, speculation on member states’ national debt will persist, keeping borrowing costs at levels that are inconsistent with the conditions required to sustain economic recovery.
Concerning external demand, intra-European help in the form of reflationary policies in stronger economies is unlikely to prove sufficient, owing primarily to the fiscal and political conditions prevailing in Germany. Implementing a Marshall Plan-type initiative by mobilizing EU budget resources and additional lending by the European Investment Bank to finance investments in weaker countries could be an alternative, but it lacks political support.
On a global scale, neither the US nor Japan is in a position to provide significant external stimulus. Only the emerging and developing economies of Asia could effectively contribute to lifting global demand through a coordinated effort aimed at boosting domestic consumption, which, in turn, would stimulate additional investment. Recent IMF experience suggests that, through appropriate coordination, private funds could be mobilized for big private-public partnership projects linking demand expansion with infrastructure investment.
In other words, a global “New Deal” – combining policies designed to achieve an orderly realignment of consumption and investment worldwide – seems to be required. The advanced economies should promote productivity-enhancing structural reforms with renewed vigor. The eurozone should solidify its currency union. And the emerging and developing economies should support domestic sources of growth.
For such a deal to become possible, certain preconditions must be met. First, international policy coordination by the G-20 must be tightened by creating a permanent secretariat to make policy proposals and recommendations concerning macroeconomic and financial developments. The secretariat should actively cooperate with the IMF to benefit from its analysis, notably regarding exchange rates.
Second, global financial reform must proceed at a faster pace. The financial sector requires tougher regulation, strengthened supervision, and internationally consistent resolution mechanisms to address the problems posed by very large, global institutions that are considered too big (or too complex) to fail. Such reform is essential if the international financial system is to mediate the sizeable resource transfers that will underpin the required changes in the structure of global demand.
Finally, a new trade pact – possibly, but not necessarily, within the Doha Round – is needed to ensure the major trading powers’ access to foreign markets. This is critically important for inspiring confidence in Asian countries, which might be persuaded to favor domestic, as opposed to external, sources of demand. Moreover, trade liberalization will also increase consumer confidence worldwide.
The time is right for a new global settlement that targets growth, addresses crisis conditions in certain parts of the world, and rebalances the global economy to set it back on a path of strong and steady growth.

http://www.project-syndicate.org/commentary/advanced-countries--need-to-boost-consumption-by-yannos-papantoniou

giovedì 7 marzo 2013

Una soluzione ragionevole, di Antonio Polito


LA GESTIONE DELL'EMERGENZA

La frettolosa offerta di Bersani a Grillo è il frutto di un vizio antico: inseguire ogni nuovo radicalismo come se fosse una «costola della sinistra», sperando così di riassorbirlo. Ma Grillo, nonostante abbia strappato molti elettori alla sinistra, non è un compagno che sbaglia. È un'altra cosa. E per capire che cos'è andrebbe innanzitutto preso in parola. La sua risposta a Bersani è infatti un programma politico: 1) non voterò mai la fiducia a nessun governo; 2) non certo a chi è stato sconfitto e si sarebbe già dovuto dimettere; 3) se proprio volete, votate voi la fiducia a un governo 5 Stelle. Tutto dice che non sta bluffando. Il suo movimento è nato per spazzare via il sistema dei partiti; perché mai dovrebbe accorrere a salvarlo proprio ora che è morente? Non sarà il senso di responsabilità a frenarlo, non ne ha: se la promessa di rimborsare l'Imu di Berlusconi è «voto di scambio», la sua proposta del reddito di cittadinanza è «aggiotaggio». E poi Grillo vuole cambiare il mondo, è portatore di una vera e propria ideologia: si batte per la decrescita felice, un'Italia in cui tutti siano più poveri ma più solidali ed ecocompatibili, «meno lavoro, meno energia, meno materiali». Non la svenderà per sedersi al tavolo di una trattativa politica.

Naturalmente possiamo sbagliarci. Ma, se non ci sbagliamo, il rompicapo italiano paradossalmente si semplifica. È infatti fuori discussione che bisogna formare un governo. Finché non ce n'è uno, nessuno investe, nessuno compra, nessuno presta: l'anno potrebbe finire con un altro crollo del due per cento di Pil. La decrescita è già tra noi, e non sembra affatto felice.

Serve dunque una maggioranza che voti la fiducia a un governo in entrambe le Camere. Se Grillo si escluderà, resteranno solo in tre: il Pd, il Pdl e Monti. La soluzione si trova lì, o non si trova.

È possibile? È molto difficile. Ma la comune rovina potrebbe diventare un'opportunità. Avendo perso insieme più di dieci milioni di voti, i due partiti maggiori dovrebbero cercare un nuovo inizio, piuttosto che sperare in un colpo di fortuna al casinò con un altro giro di Porcellum . Hanno entrambi bisogno di tempo per emendarsi, rigenerarsi, farsi perdonare. Il disastro politico che abbiamo di fronte è colpa loro. Del resto il Paese ha bisogno di qualcosa che solo loro possono fare: la riforma di una democrazia parlamentare che non funziona più. Da tempo il Pd chiede il modello elettorale a doppio turno; da tempo il Pdl aspira al presidenzialismo. Basterebbe sommare le due cose per darsi un sistema istituzionale forte come in Francia, che garantisce esiti elettorali certi e governi stabili.

A Grillo i partiti potrebbero rubare il programma di moralizzazione della vita politica semplicemente applicandolo, e nel modo più integrale: azzeramento del finanziamento pubblico, dimezzamento del numero dei parlamentari, eliminazione del Senato (diventerebbe una Camera dei rappresentanti delle Regioni), abolizione delle Province. In prima fila dovrebbero mandare la seconda generazione, accantonando i gruppi dirigenti attuali: quello del Pd perché ha perso troppe elezioni, quello del Pdl perché ha fallito in troppi governi. A Palazzo Chigi dovrebbe andare un homo novus , meglio se donna, e al Tesoro una personalità fuori dalla mischia che applichi gli impegni che abbiamo già preso con l'Europa. Un governo sostenuto dai due maggiori partiti avrebbe forse la forza di trattare con la Germania per un allentamento dell'austerità e con la Bce nell'eventualità di un paracadute; mentre ogni governicchio sarebbe un paria sulla scena internazionale e ogni avventura sarebbe un incubo.

Se fossimo in Germania un governo così sarebbe già nato, e non è escluso che un risultato elettorale ambiguo lo faccia nascere davvero anche lì a fine anno. In Italia ha davanti a sé due formidabili ostacoli: la guerra civile strisciante che dura da vent'anni e la posizione giudiziaria di Silvio Berlusconi, che a lui fa sognare lo scudo di una carica istituzionale e ai suoi nemici fa sperare in un nuovo esilio d'oltremare. Ma il Pd e il Pdl devono sapere che quando i partiti non servono a governare vengono spazzati via. In Francia stavano per farlo i generali, prima che de Gaulle desse vita alla Quinta Repubblica. In Italia sta per farlo Grillo.